Plenum straordinario del Csm (LaPresse)

Il Csm e l'orrore di una repubblica giudiziaria fondata sui pm. Sveglia

Claudio Cerasa

Lo scandalo non è una corrente marcia o un magistrato traffichino ma l’incapacità di ragionare su un grande tema: come si fa a ridurre la discrezionalità dell’azione dei pm. L’altro tabù violato nel caos Csm

Dimenticatevi della fuffa e pensate alla ciccia. Tra i molti spunti di riflessione offerti dalla incredibile guerra tra bande combattuta ormai da giorni attorno agli equilibri del Csm – e alle sue nomine, ai suoi indagati, alle sue fughe di notizie e ad alcuni sconvenienti intrecci con la politica – ce n’è uno molto importante che non è stato ancora considerato e che riguarda un tema cruciale non solo nell’ambito del caso Palamara ma anche nell’ambito della nostra democrazia. Qualcuno ci avrà fatto caso e qualcun altro forse no. Ma se c’è un filo conduttore che merita di essere seguito con attenzione per non perderci tra i mille rivoli del caos del Csm quel filo coincide con un dato che non può essere solo casuale: tra i protagonisti dell’ultimo incredibile cortocircuito della magistratura ci sono solo pubblici ministeri. Significa che i pubblici ministeri hanno una predisposizione naturale a fare zozzerie? Non diciamo stupidaggini. La nostra annotazione punta però a segnalare un tema che non può continuare a essere omesso: la ragione per cui la politica più o meno laica e le correnti più o meno togate si sono ritrovate a scannarsi tra di loro più per influenzare le nomine di procuratori e di sostituti procuratori che per influenzare le nomine di giudici è legata a un fatto difficilmente contestabile che riguarda la falsità assoluta di un dogma della nostra giurisprudenza: l’obbligatorietà dell’azione penale.

  

Non tutti i magistrati sono uguali, naturalmente, e generalizzare sarebbe un errore, perché siamo certi, abbiamo fiducia nella magistratura!, che il numero di magistrati che gioca con l’obbligatorietà dell’azione penale è infinitamente più piccolo rispetto al numero di quelli che non giocano con l’obbligatorietà dell’azione penale. Ma la ragione per cui politici e magistrati coinvolti nello scandalo del Csm hanno dimostrato di considerare più importante avere dei procuratori amici che dei giudici amici risiede proprio in un grande non detto presente all’interno della nostra democrazia: un giudice può essere bravo o può essere scarso ma alla fine non ha grande margine di discrezionalità e deve giudicare le prove.

  

Un pm, a prescindere da quanto sia bravo o da quanto sia scarso, ha invece uno strumento discrezionale e arbitrario che il giudice non ha. In teoria, come tutti sappiamo, l’articolo 112 della Costituzione prevede che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale e che tale principio permette di escludere margini di discrezionalità in merito all’avvio delle indagini e impedisce che il pubblico ministero riceva direttive, istruzioni o pressioni atte a incidere sulla sua attività. In realtà, come nessun magistrato faticherà ad ammettere lontano dai taccuini, ogni procuratore ha la possibilità di selezionare a suo piacimento le sue priorità. E la potenziale discrezionalità di ciascun magistrato è stata in qualche modo ingigantita da tutti quei governi che piuttosto che occuparsi di trovare un equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario hanno contribuito a offrire ai magistrati nuovi strumenti per ampliare il proprio potere.

 

Tempo fa Mario Cicala, esponente storico di Magistratura indipendente, chiacchierando con questo giornale disse che la magistratura italiana, proprio su questo punto, aveva due grossi problemi: “Oltre alla discrezionalità di celebrare i processi, vi è anche una discrezionalità del potere di indagine del magistrato che sceglie lui dove andare a cercare notizie di reato. Soltanto partendo da questa constatazione può iniziare un dibattito che farebbe abbandonare miti vuoti come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Non si può capire quasi nulla dello scandalo del Csm senza comprendere che il vero peccato originale nascosto dietro al traffico relativo alle nomine dei procuratori più importanti d’Italia riguarda non la presenza di un magistrato un po’ furbacchione e molto disinvolto, non l’anomalia di un politico indagato che influenza le nomine della procura che lo ha indagato, non il marciume di una corrente della magistratura al posto di un’altra. Riguarda qualcosa di più importante: la consapevolezza che ogni magistrato della Repubblica può potenzialmente rallentare o velocizzare un’indagine in modo del tutto discrezionale.

 

“L’idea che qualunque notizia di reato debba determinare l’apertura di un fascicolo – ha detto usando parole sagge Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali – è un fatto fisicamente irrealizzabile. I procuratori devono selezionare delle priorità e tali scelte hanno trasfigurato questi uffici giudiziari in uffici di rilevanza politica perché decidere se iscrivere o meno una notizia di reato, darle una priorità o non dargliela, magari su indagini delicate che riguardano politici e governi, ha conseguenze politiche devastanti. E come tutti sappiamo, la sola iscrizione di un sottosegretario o di un ministro nel registro degli indagati determina immediate conseguenze politiche, a prescindere dalla fondatezza o meno della notizia”. Lo scandalo del Csm, fra le tante cose che ci racconta, ci ricorda che un paese ostaggio di un falso dogma chiamato obbligatorietà dell’azione penale, in cui la classe dirigente non fa nulla per affrancarsi da questa ipocrisia, è un paese destinato a essere governato a lungo da una repubblica giudiziaria fondata sul processo mediatico, sulla gogna preventiva e sulla discrezionalità dei pm. Un paese serio, di fronte alla guerra tra bande dei magistrati, piuttosto che scegliere una banda al posto di un’altra dovrebbe discutere di questo: non di come sostituire una corrente con un’altra, ma di come ridurre lo spazio della politicizzazione nell’azione della magistratura. Il resto, con tutto il rispetto, è fuffa.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.