Foto LaPresse

Il ministro più pericoloso d'Italia

Claudio Cerasa

I guai del nostro paese non dipendono solo dalle pazzie economiche del governo ma anche da un’altra scelta deliberata: violentare lo stato di diritto avvicinando la Giustizia al modello iraniano. La decrescita spiegata con il metodo Bonafede

Il ministro più pericoloso d’Italia non è quello che osserva con sguardo vuoto i binari della Tav, non è quello che gioca con i migranti come se fossero lattine in un saloon, non è quello che ha trasformato il ministero del Lavoro nel ministero della disoccupazione, non è quello che ha trasformato il ministero dello Sviluppo nel ministero del sottosviluppo (è lo stesso di prima), non è quello che considera i soldati all’estero come se fossero marionette comandate dalla Casaleggio Associati ma è quello che da nove mesi compie ogni giorno un passo per violentare lo stato di diritto e avvicinare la giustizia italiana al modello della teocrazia iraniana. Il ministro in questione si chiama Alfonso Bonafede e dalla primavera dello scorso anno non c’è un solo atto della sua traiettoria politica che non sia stato orientato a mettere in campo un particolarissimo whatever it takes: fare di tutto per dare all’articolo 101 della Costituzione una connotazione diversa rispetto a quella immaginata dai Padri costituenti, trasformando “la giustizia amministrata in nome del popolo” in una “giustizia amministrata in nome della gogna”.

 

Ci occupiamo oggi di quello che forse Gaetano Salvemini – inventore della famosa definizione affibbiata nel 1910 a Giovanni Giolitti, “il ministro della malavita – oggi non faticherebbe a chiamare il ministro della Malafede per una frase raccapricciante e rivelatrice ripetuta da Bonafede due volte negli ultimi giorni. La prima volta è stata martedì scorso, quando il ministro, dopo il no del Movimento cinque stelle all’autorizzazione a procedere contro Salvini, ha tenuto a precisare che “nel M5s non c’è nessuna svolta garantista”. La seconda volta è stata ieri, quando rispondendo a una domanda del Fatto – “Avete scoperto improvvisamente il garantismo per salvare Salvini e il governo?” – il ministro ha detto che “è falso”: il garantismo è una fake news. E’ possibile che il Guardasigilli conosca meglio la Costituzione davighiana (“Non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”) rispetto a quella italiana. Ma un ministro della Repubblica che ha giurato promettendo di “essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione” e che considera il garantismo un insulto e non semplicemente un articolo della nostra Costituzione (articolo 27: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”) conferma l’appartenenza a un partito che di natura è incostituzionale ed eversivo. E una giustizia amministrata in nome della gogna non è solo una giustizia che autorizza i ministri a trasformare l’arresto di un criminale nella scena di uno sciacallaggio elettorale (Davigo forse non glielo ha spiegato bene ma il ministro della Giustizia è anche il ministro deputato a garantire i diritti dei detenuti), che trasforma il principio della certezza della pena nella certezza del carcere (secondo Bonafede, “le misure alternative sono solo interventi deflattivi”) e che arriva al punto di promettere leggi che diano la possibilità a tutti i cittadini “di ascoltare le parole dei politici indagati o dei politici quando sono al telefono con persone indagate”. Ma è un’idea di giustizia che fa molto di più, che arriva a molto di più, e che diventa inevitabilmente un macigno sulle possibilità di sviluppo nel nostro paese.

 

In un momento storico in cui l’Italia, come ha messo in rilievo ieri l’agenzia di rating Fitch, avrebbe un bisogno disperato di lanciare segnali rassicuranti sulla sua affidabilità, il ministro della Malafede sembra invece avere deciso di ignorare che una delle ragioni al centro della bassa crescita dell’Italia è legata anche alla sua inaffidabilità sui temi della giustizia. L’Italia, come ricordato un anno fa dall’ex ambasciatore americano John Phillips, è solo l’ottavo paese nella graduatoria europea sugli investimenti diretti dagli Stati Uniti, in percentuale rispetto al suo prodotto interno lordo si colloca solo davanti alla Grecia nell’Ue per la quantità di investimenti esteri diretti nel paese, e la ragione è che la giustizia lenta in Italia tiene in ostaggio le imprese – nel settore civile, ci vogliono in media 991 giorni per arrivare a una sentenza, oltre il doppio di Spagna (510), Germania (429) e Francia (395), e secondo quanto calcolato da un recente studio condotto da Cer-Eures la lentezza delle indagini costa al paese ogni anno qualcosa come circa 40 miliardi di euro, 2,5 punti di pil, più o meno una manovra. Nonostante tutto questo, allo stato attuale l’Italia, infischiandosene del fatto che il 70 per cento dei procedimenti penali finisce in prescrizione al termine delle indagini preliminari, ha scelto di approvare una riforma sulla corruzione che punta a rendere eterni i processi prevedendo, a partire dal prossimo anno, la sospensione sine die della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Lo ha fatto, il governo, sapendo perfettamente cosa prevede l’articolo 111 della Costituzione (la legge assicura “la ragionevole durata del processo”) e promettendo proprio per questo di lavorare entro l’anno a una riforma della giustizia finalizzata a ridurre i tempi del processo, che però a dieci mesi dalla sua teorica approvazione ha fatto la stessa fine della crescita: sparita, scomparsa, abolita. Il declassamento futuro dell’Italia non passa dunque solo dal destino del suo debito pubblico. Passa anche dalla trasformazione di un paese che, scegliendo di sputare sul garantismo e scommettere sul processo senza fine, ha deciso di trasformare la gogna nell’evoluzione iraniana dello stato di diritto. E’ la malafede, bellezza.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.