Con i populisti non c'è giustizia possibile

Claudio Cerasa

Salvini definisce “acqua fresca” l’oscena riforma Bonafede, ma in un anno la sua Lega non ha fatto nulla per evitare di trasformare il processo in uno strumento di vendetta sociale. Perché la repubblica giudiziaria si combatte solo mandando a casa il governo

Sarebbe bello poter credere alle parole di Matteo Salvini e immaginare che all’origine dello scontro sulla riforma della giustizia andato in scena ieri con il Movimento 5 stelle ci sia una volontà sincera da parte della Lega di difendere il principio del giusto processo, di combattere i tempi lunghi della giustizia, di opporsi alla barbarie del processo mediatico, di ribellarsi all’eccessiva discrezionalità di cui godono i magistrati italiani. Sarebbe bello poter credere che dietro all’ultima battaglia tra Lega e M5s ci siano questioni ideali e non elettorali, ma la storia di questo anno e mezzo di governo suggerisce purtroppo una sceneggiatura molto diversa all’interno della quale il partito di Salvini è più complice che vittima del giustizialismo grillino. Il Consiglio dei ministri di ieri, come sapete, ha registrato una distanza plastica tra le posizioni della Lega e quelle del M5s.

 

Ma per quanto possa sembrare paradossale, alla radice delle polemiche di queste ore vi è una scelta scellerata – una delle tante – compiuta alla fine dello scorso anno proprio dalla Lega: accettare senza battere ciglio di votare una riforma “anticorruzione” che tra le molte scelleratezze ha introdotto, a partire dal 1° gennaio del 2020, l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La Lega ha sostenuto di aver votato quella riforma solo dopo aver avuto precise rassicurazioni da parte del M5s: non ti preoccupare Matteo, votiamo questa simpatica legge che farà allungare i tempi dei processi e prima di gennaio, vedrai, faremo una straordinaria riforma per far diminuire i tempi del processo.

 

A cinque mesi dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’abolizione della prescrizione scopriamo ora che il responsabilissimo ministro dell’Interno, tra una passeggiata e l’altra in spiaggia, non solo non ha ancora alcun accordo concreto con i suoi compari di governo per fare quello che aveva promesso di fare mesi fa, ma in questi mesi ha fatto di tutto per evitare che il suo governo trovasse un qualche antidoto contro la trasformazione del processo in uno strumento di vendetta sociale.

Ha scelto di non considerare prioritaria l’introduzione nella riforma della giustizia di alcuni provvedimenti che avrebbero potuto quantomeno temperare gli effetti nefasti veicolati dall’abolizione della prescrizione.

Ha scelto di non difendere la riforma del patteggiamento, con l’innalzamento annunciato e poi cancellato fino a dieci anni o fino alla metà della pena che avrebbe permesso di snellire l’attività processuale e che sarebbe stato un elemento non secondario all’interno di un paese che considera i riti alternativi come strumenti del demonio e che si ritrova da tempo con il 90 per cento dei processi in corso di natura dibattimentale.

Ha scelto di considerare fino all’ultimo accettabile l’idea che una risposta ai processi lumaca potesse essere il divieto di proroga del termine delle indagini preliminari oltre i sei mesi, senza accorgersi che un divieto che prevede solo una sanzione disciplinare e non una sanzione processuale non è un divieto ma è una truffa.

Ha scelto infine di svuotare la rimodulazione del sistema sanzionatorio opponendosi con forza a ogni ipotesi di allargamento del perimetro delle depenalizzazioni.

 

Matteo Salvini ieri ha definito con disprezzo la riforma Bonafede come una riforma fatta di acqua fresca, ma la verità è che all’interno della traiettoria seguita fino a oggi dal ministro dell’Interno non esiste un solo indizio capace di rendere credibile l’idea che il leader della Lega voglia difendere il principio del giusto processo, voglia combattere i tempi lunghi della giustizia, voglia opporsi alla barbarie del processo mediatico, voglia ribellarsi all’eccessiva discrezionalità di cui godono i magistrati italiani. Ogni compromesso con un partito giustizialista che ha fatto della negazione esplicita dell’articolo 27 e dell’articolo 111 della Costituzione (ogni imputato è innocente fino a prova contraria, la legge assicura la ragionevole durata dei processi) è un compromesso al ribasso. E ogni compromesso al ribasso sul terreno della giustizia è un passo in avanti verso il consolidamento di una repubblica giudiziaria fondata sul principio dello scalpo.

 

In uno sciopero convocato lo scorso novembre dalle Camere penali, l’approccio scelto dal governo per cambiare la giustizia è stato giustamente definito il simbolo di una “controriforma autoritaria della giustizia penale” che altro scopo non ha se non quello di aggredire “il principio costituzionale della ragionevole durata del processo” trasformando, attraverso l’allungamento infinito dei tempi, il processo stesso in una forma occulta di pena. A voler seguire questa traccia, dunque, se il leader della Lega volesse davvero combattere per avere una riforma della giustizia capace di riequilibrare l’obbrobrio votato dallo stesso Matteo Salvini alla fine dello scorso anno avrebbe solo una carta a disposizione: arrestare il governo, prescrivere il grillismo e infilare nel cestino della storia una maggioranza che non ha altra natura se non quella di promuovere una controriforma autoritaria della giustizia penale. Faster, please.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.