Ministero dell'Interno. Conferenza stampa di Matteo Salvini (foto LaPresse)

Salvini dice di non volerlo ma intanto la Lega già si prepara al voto anticipato

Valerio Valentini

Il ministro dell’Interno prende tempo, ma la Lega ha già segnato tre date sul calendario. Il voto su Rousseau e il no “agli accrocchi”. Conte da Mattarella. E poi?

Roma. Potrà arrivare come esito inevitabile, come una palla sul piano inclinato che nessuno riesce più a fermare. Potrà arrivare, questa crisi di governo mille volte evocata, senza che però nessuno dei due capi ne abbia la voglia davvero. “Se non riusciamo a lavorare, se dobbiamo stare qui a sentirci dire solo dei ‘no’, allora ne trarremo le conseguenze”, dice Matteo Salvini ai suoi parlamentari convocati a Montecitorio all’ora di pranzo. E quel tono apparentemente ultimativo, però, subito si stempera quando poi il capo del Carroccio catechizza i più irrequieti, quelli che di questo travaglio gialloverde sono più stufi e hanno già cerchiato le date buone – una delle tre domeniche tra il 16 e il 29 di settembre – per una eventuale chiamata alle urne: “Noi non provochiamo – si raccomanda Salvini – stiamo calmi. Attendiamo che loro risolvano il loro dibattito interno”. E infatti Igor Iezzi, salviniano di ferro, arrivando in Transatlantico quasi si stupisce della curiosità dei cronisti: “Non è alla nostra, di riunione, che dovete guardare”.

  

È intorno all’assemblea dei parlamentari grillini, del resto, che gravita tutta la frenetica attesa della giornata. Ma l’entropia delle chat, dei conciliaboli dei grillini nel cortile di Montecitorio, s’ammoscia d’improvviso alle tre del pomeriggio, quando perfino Beppe Grillo concede la sua benedizione al discepolo usurpatore: Luigi “Deve continuare la battaglia che stava combattendo prima. È già eccessiva questa giostra di revisione della fiducia”, si legge sul blog del comico. “Ma non lo ha scritto Beppe”, sentenzia, categorica, Elena Fattori. “Quel linguaggio, quello stile da peracottaro è di Pietro Dettori”, dice la senatrice ribelle riferendosi al fedelissimo di Luigi Di Maio, già collaboratore della Casaleggio e in passato ghost writer di Grillo. 

 

Come che sia, Di Maio ottiene la sua blindatura. Già al mattino, appena aveva capito che i dissidenti avrebbero chiesto una sorta di sfiducia online, il vicepremier grillino gioca d’anticipo: la indice lui, la votazione su Rousseau, annunciando già il quesito: “Confermi Luigi Di Maio come capo politico del M5s?”. Il tutto da svolgersi l’indomani. “Per cui la riunione di stasera è stata del tutto depotenziata”, sorride amara la Fattori. Di lì a poco, riservatamente, si farà sentire anche Davide Casaleggio, con messaggi privati fatti arrivare ad alcuni dei colonnelli: “Non esiste che si metta in discussione Luigi”. Poi, definitiva, la voce del garante, che a norma di “statuto” sarebbe del resto l’unico – oltre al comitato di garanzia interno, fatiscente – a potere sfiduciare il capo politico. Non succederà. “Anche perché di alternative non ce ne sono: non vedo Churchill in panchina, nel M5s”, ammette il sardo Nardo Marino. In discussione, semmai, ci sono altri. Lo staff della comunicazione, certo, ma non solo. “Mi sembra chiaro che almeno qualche nostro sottosegretario dovrà saltare”, dice Giovanni Currò, deputato che viene da quella Como dove il M5s s’è fermato all’8,7 per cento. “Abbiamo molte risorse spendibili – spiega – sia al nostro interno sia all’esterno”. Un rimpasto autoimposto e “di stampo tecnico”: un espediente, forse, per camuffare il riequilibrio all’interno del governo in favore della Lega. Una testimonianza, in ogni caso, di come nel M5s l’idea di staccare la spina sia una suggestione scomposta di alcuni irrequieti, e nulla più.

 

“Certo che si va avanti”, confermava martedì Enrico Esposito, a capo dell’Ufficio legislativo del Mise, ai leghisti che gli chiedevano lumi. “Nessuna intenzione di rompere”. Il che, in fondo, a Giancarlo Giorgetti dispiace non poco, visto che ormai il sottosegretario alla presidenza, estenuato dall’inconcludenza gialloverde, fa sapere in ogni modo che, dipendesse da lui, le elezioni anticipate sarebbero scontate. “Sempre meglio con Di Maio che con la Meloni”, ripetono però i salviniani. Il capo della Lega tentenna, indugia, “strattona ma non strappa”: non vuole in alcun modo che la responsabilità di una eventuale crisi possa essere ricondotta a lui, cerca un pretesto e nessuno gli sembra quello giusto (di certo non lo sarà l’eventuale guerriglia contro Rixi, se il viceministro ai Trasporti dovesse finire condannato). A un ministro che gli chiedeva lumi sulla data del prossimo Cdm, Giorgetti ha risposto: “Non ci sarà, un prossimo Cdm”. E invece alla fine – dopo che Giuseppe Conte è stato ricevuto al Quirinale da Sergio Mattarella, al quale ha detto che crede che il governo andrà avanti – viene fissato per lunedì. E sarà forse quello della resa dei conti, o del nuovo inizio della sceneggiata. Nell’attesa di una crisi che forse non ci sarà mai.