Di Maio recita la resa incondizionata alla Lega e già si prepara a diventare l'Alfano di Salvini

Valerio Valentini

Al Mise va in scena la crisi aziendale del M5s: apertura al Pd e lotta dura al Carroccio o rimpasto e stampella di Salvini?

Roma. Il paradosso a cinque stelle, Giorgio Trizzino lo esprime in un sospiro di alienazione: “Quello della Lega è il successo di una destra sempre più egemone, a cui dovremo saperci opporre”, dice il deputato grillino, medico palermitano e amico personale di Sergio Mattarella, quasi rimuovendo una realtà dei fatti che dice che il M5s, con quella stessa destra, ci governa. “Proviamo a contenerla – prosegue Trizzino – non potendo sconfiggerla. Un po’ come il Pci, in passato, tentò con la Dc”. E però più che Berlinguer, Luigi Di Maio richiama un’altra figura, più modesta e più triste, e cioè quella di Angelino Alfano, che per quello stesso “senso di responsabilità” evocato da Trizzino, per quella stessa “mancanza di alternative praticabili”, finì con l’essere la stampella di governi in cui risultava ininfluente, o quasi.

  

Il paragone si pone intorno alle tre del pomeriggio. Quando Di Maio, dopo ore di latitanza mediatica trascorse nel bunker di via Veneto, compare col volto stravolto nel parlamentino del Mise. Di Maio arriva sconvolto in quella stanza che, al Mise, di solito si usa per discutere delle crisi aziendali (e non a caso, forse, di lì a poco Di Maio dirà di avere sentito anche Davide Casaleggio, cioè il capo della Casaleggio Associati srl, ovvero del M5s, per avere certezza di non doversi dimettere). E bastano pochi minuti per capire che, dietro timide parvenze di riscatto, c’è in realtà una resa incondizionata del capo grillino alle richieste dell’alleato ostile. “La flat tax? Se il ministro Tria dice che ci sono le coperture io ci sto. L’autonomia? Si farà, ma rispettando la coesione nazionale”. Perfino sulla Tav, con mesta rassegnazione, Di Maio rimette tutto alla volontà di Giuseppe Conte (“Il dossier è nelle mani del premier”).

 

  

D’altronde l’analisi della sconfitta per Di Maio è una coperta che, come la tiri e la giri, resta corta. E così, da un lato c’è chi, come il piemontese Luca Carabetta, volto governista e un po’ democristiano di questo M5s, auspica l’abbandono di certi toni barricaderi: “Forse – dice il deputato grillino – questa sconfitta è figlia di una svolta radicale, avvenuta tra il settembre e il febbraio scorsi, che ha dato del M5s un’immagine di forza poco responsabile. Un’impressione che non siamo riusciti a smentire in queste ultime settimane, in cui pure c’è stata una svolta moderata da parte di Luigi, su cui però ora bisognerà insistere”.

 

E dall’altro lato, però, c’è chi proprio nell’appannamento dell’identità del Movimento sembra intravedere le cause della sconfitta: “Se rinunciamo ai nostri valori, molti di noi non reggeranno a questo appiattimento sulla linea dettata dalla Lega”, ammette Lucia Azzolina, una che del resto non ha mai nascosto di essere stata nel 41 per cento degli elettori di Rousseau che avrebbe preferito mandare a processo Matteo Salvini sul caso Diciotti. Sintomi di una forza politica che ha la forma dell’acqua, che prova ad adeguarsi di volta in volta alle circostanze, fino a venire travolta dal garbuglio degli eventi. Non a caso mentre dal fronte del nord, da quel Veneto autonomista dove la sfida tra Lega e M5s è finita 50 a 9 (per cento), si alzano forti le voci dei grillini che dicono che “molto male ci ha fatto l’ambiguità sul regionalismo differenziato”, al contempo Vincenzo Presutto, senatore campano che più di altri si batte contro le storture dell’autonomia arriva a prospettare perfino cambi di alleanza e nuovi governi: “Guardare al Pd? Tutto è possibile. Nulla è da escludere, mai come in questo momento. Tutti gli scenari possono e devono essere almeno considerati e valutati”. E quando gli si chiede se, di fronte alle pressanti richieste di Salvini, il M5s potrà reggere, risponde lapidario: “Assolutamente no. Ci sarà molto da riflettere e lo faremo”.

 

Su tutto, ovviamente, tranne che sul nome del leader. “Nessuno ha chiesto le mie dimissioni”, dice, in un fremito di orgoglio, Di Maio, come a volere disinnescare già l’assemblea dei parlamentari convocata per mercoledì. E d’altronde, al netto di qualsiasi dissidente interno dell’ala fichiana, Di Maio sa bene che nulla possono, sul suo destino, deputati e senatori, dacché l’unico a potere sfiduciare il capo politico è il Garante del M5s, ovvero Beppe Grillo, e i tre membri del fatiscente Comitato di garanzia che sempre dal garante vengono indicati.

 

C’è poi l’ipotesi del rimpasto, negata perfino da chi dovrebbe beneficiarne, e cioè Salvini, che tuttavia sa bene che un riequilibrio nel governo, anche a livello di poltrone, avverrà, perché è nelle cose. E non a caso i consiglieri di Di Maio hanno già fatto sapere, informalmente, che oltre alla carica di commissario europeo, spetterà alla Lega anche quella del ministro degli Affari europei (“D’altronde sono europee le elezioni che Salvini ha vinto, no?”) rimasta vacante dopo la nomina di Paolo Savona alla presidenza di Consob. E altri avvicendamenti – ai Trasporti, alla Difesa – potrebbero perfino essere favoriti dal M5s, tentato dalla disperata volontà di trovare degli alibi che giustifichino almeno in parte quei “Sì” – alla Tav, alle spese militari – che Di Maio dovrà pronunciare senza però muovere la bocca, pur di restare ancora un po’ al governo.

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