(Foto LaPresse)

Roma è la capitale del disastro

Salvatore Merlo

Autobus a fuoco, stazioni allagate, piedi amputati, stupri, sindaca nulla. Ci resta solo il referendum sulla scala mobile

Questa volta il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, non ha chiesto la revoca del contratto di servizio all’azienda disfunzionale dei trasporti romani, l’Atac. Nessuna diretta Facebook per gridare che “non aspetteremo i tempi della giustizia” perché non si può rischiare di morire in metropolitana per la negligenza di chi dovrebbe garantire la sicurezza dei viaggiatori e la manutenzione delle infrastrutture. Tutto il contrario. “C’è un’inchiesta in corso”, ha detto Virginia Raggi, espressione di un mondo che trova evidentemente misura, sobrietà e rispetto dei ruoli soltanto quando capisce di essere in colpa grave.

 

 

Martedì sera, nelle profondità della metro di piazza della Repubblica, in pieno centro, a un passo dalla stazione Termini, potevano anche esserci dei morti tra le lamiere lacerate della scala mobile che ha ceduto e si è schiantata, trascinando con sé decine di persone finite in ospedale. Gambe massacrate dal metallo, un piede semiamputato, scene da macelleria, in quel contesto di abbandono che sono le stazioni della metro nella capitale d’Italia. Una città in cui tutto è sempre più fatiscente, imputridito, decrepito, lasciato a decomporsi nell’incuria, a cominciare dall’asfalto che si sbriciola per le strade (un incidente mortale su tre riguarda le buche), alla spazzatura che nessuno raccoglie (lo scaricabarile intorno al piano rifiuti tra comune e regione è indecente), fino alle strade che si trasformano in fiumi navigabili alla prima pioggia d’autunno, persino peggio di come accadeva già prima che quasi tre anni fa il sindaco Raggi dichiarasse: “Signori, il vento sta cambiando”.

 

 

L’anno scorso Beppe Grillo, nel corso di un comizio surreale e scombiccherato, propose la Nigeria, e la città di Lagos, come esempio di benessere e sviluppo cui ispirarsi. Dev’essere per questo che da sei mesi, in via del Tritone, al numero 50, resta quella colonna di fuliggine alta come tutto il palazzo, lì dove a maggio era andato a fuoco un autobus di linea, il 63 che si dirigeva verso Largo Chigi: l’intonaco cotto e lebbroso, l’insegna della profumeria Muzio, con quella “O” di plastica semiliquefatta, che sta lì come un promemoria allo sfacelo di una città e di un’azienda dei trasporti – l’Atac – che spende per i suoi 12.000 dipendenti esattamente il doppio di quanto ricava dalla vendita dei biglietti e degli abbonamenti. Dunque non si fa manutenzione, non ci sono soldi per la sicurezza.

 

Così anche le scale mobili, quando non precipitano, hanno l’asma, vanno a singhiozzo. Tecnicamente fallita, sottoposta a procedimento di concordato, oggetto di un referendum per la messa a gara del servizio pubblico boicottato dal comune (si vota l’11 novembre, ma non lo sa nessuno), Atac non è un’azienda che offre un servizio, ma è una forma di welfare: esiste e deve continuare a esistere così com’è, cioè a non funzionare, al solo scopo di pagare degli stipendi. Il vento non è mai cambiato a Roma: consenso in cambio di stipendi pubblici. Solo che nel frattempo è arrivata la crisi, i denari a pioggia sono finiti, e allora gli autobus vanno a fuoco, i treni della metro si bloccano nelle gallerie, le stazioni si allagano o s’incendiano, e le scale mobili si accartocciano con il loro povero contenuto di carne umana. 

 

In mezzo a questo sfacelo si staglia, per così dire, la mezza figura di una sindaca che sembra non rendersi conto di dove si trovi, di cosa faccia, di quali responsabilità sia investita. C’è la riunione definitiva sullo stadio della Roma? E lei non c’è. Si discute d’urgenza intorno allo stato dell’azienda dei trasporti? E Raggi non c’è. Si decide d’intitolare una strada ad Almirante? E lei casca dal pero, in televisione, e trasforma in farsa una questione che potrebbe avere una sua legittimità storica: “Non lo sapevo”.

  

I pm le chiedono di Luca Lanzalone, l’avvocato da lei nominato presidente di Acea e arrestato per corruzione? E lei dice che “me l’hanno imposto quelli del M5s nazionale”. Poi, ieri, commentando l’orrore di San Lorenzo, il massacro di Desirèe Mariottini: “È necessario che l’azione dello stato sia più incisiva”. Come se lei non fosse il sindaco, cioè lo stato. Ma una passante. Fino al prossimo arresto, al prossimo crollo, la tragedia che diventa il proseguimento della normalità. Domenica è salita sul palco, alla festa del M5s. In dieci minuti ha ripetuto per sei volte “noi siamo dei folli”, “nessuno ci credeva”, e poi ha parlato di “salotti esclusivi”, di “loro”, nemici evanescenti, inafferrabili e indeterminati. Il disastro è invece solidissimo, emergenziale e inoccultabile.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.