Matteo Salvini, a sinistra, circondato dai giornalisti nel quartiere di San Lorenzo a Roma (foto LaPresse)

Salvini accende una gazzarra tra tifosi attorno al dramma di Desirée

Valerio Valentini

Il ministro a San Lorenzo, sul luogo dell’orrore, tra urla “viva Benito” e centri sociali. Cronaca di uno sbraco collettivo

Roma. Arrivandoci dall’alto, da piazza dei Campani, via dei Lucani appare come un gorgo dove la vitalità scomposta di San Lorenzo si disfa nello sfacelo. Tolti un paio di uffici, perfino offensivi nel loro nitore da ristrutturazione recente a confronto con ciò che gli sta intorno, tolto uno studio di architetti, tutta la discesa è una serie inesausta di vetrine vuote e saracinesche abbassate. Quelli che per brevità di cronaca verranno definiti “i ragazzi dei centri sociali”, sono qui da ore. Da quando, cioè, poco dopo le dieci, si è diffusa la notizia della visita di Matteo Salvini al rudere in cui è morta, per violenza o per overdose non si sa, Desirée Mariottini, sedicenne di Cisterna di Latina. Sono studenti e attivisti del centro Communia, lì a due passi; molti frequentano il Cinema Palazzo e la palestra popolare, nel cuore del quartiere; altri vengono da Corviale, dal Quarticciolo. Tutti compatti nel denunciare “la strumentalizzazione indegna da parte del ministro dell’Interno del cadavere di una pischella”.

 

 

L'ingresso dello stabile abbandonato dove è morta Desirée Mariottini (foto LaPresse)

  

Ma dall’altro lato della strada, meno numerosi e meno compatti, quelli che rivendicano la titolarità dell'indignazione (“Noi a San Lorenzo ci viviamo da sempre”), rinfacciano a chi protesta un’altra impostura, perché “per cinque giorni qua nun s’è visto nessuno, ‘sta pora ragazza solo noi se la semo pianta, e mo’ siccome vie’ Salvini questi stanno a fa’ la passerella”. Pretendono di apparire più autentici, più legittimati nel loro livore contro le istituzioni perennemente assenti: “Tutti lo sanno che qui si spaccia e si ruba, e che poi si viene in questo palazzo abbandonato a richiedere la refurtiva, magari pagando”. E però anche loro, i più coreografici e chiassosi tra i “supposti residenti”, sono in realtà una comitiva in qualche modo organizzata: due ore più tardi li si ritroverà davanti al bar Argent, in via degli Equi, seduti a riguardarsi i video già pubblicati sui siti dei giornali, a compiacersi della loro effimera, anonima, notorietà. (Spunta pure Dino Giarrusso, tra la folla: osserva, fa video, discetta di sociologia, ragiona su come "la realtà abbia superato le idee, più che le ideologie". "Ma questo è quello delle Iene". "No, mo sta al governo").

 

La rabbia, da una parte e dall’altra, non è che non sia vera. Ma è evidente che c’è come un rigurgito di novecento recitato, in questo scontro: i pugni chiusi delle femministe cinquantenni, i bracci tesi delle casalinghe attempate che urlano “viva zio Benito, e viva pure Salvini”. L’unica novità sta nel fatto che un pezzo della Roma popolare – San Lorenzo – sembra rivoltarsi contro se stessa e la sua storia, la sua identità. Il povero salviniano diviene subito stereotipo pronto per la narrazione giornalistica. E lo capisce. E allora si lascia arpionare dalle telecamere, si gode quell’attenzione inaspettata che lo esalta: è il suo momento, è il giorno del suo urlo contro il mondo. E tra le due messinscene, è innegabile che una abbia una potenza assai più dirompente dell’altra: perché di fronte alla studentessa che parla di “autodifesa del corpo delle donne” c’è l’imbianchino coi pantaloni sporchi e i calli sulle mani che dice, chissà poi se è vero, che sua moglie ha paura ad uscire di casa, dopo le otto, nel quartiere.

 

 

 Proteste contro Salvini a San Lorenzo (foto LaPresse)

 

Salvini arriva poco prima dell’una. Arriva da viale dello Scalo, dentro San Lorenzo di fatto transita neppure. Scende dalla sua auto coi vetri semioscurati, attorniato dalle altre auto blu: circondato dalla scorta, si ritrova davanti il muro dei cronisti. In quello stallo si alzano i cori di chi urla “sciacallo”, ma si sente pure il rimbombo sordo dei pugni sbattuti sui tettucci delle auto parcheggiate: “Daje, Sarvì, faje vedè chi sei: sgozzali in piazza ‘sti negri de merda”. Lui rompe la catena delle braccia dei poliziotti che lo proteggono, fende la folla di giornalisti e la rompe: alcune telecamere vanno a terra, i microfoni vengono calpestati.

 

Esibisce un passo deciso, marziale: ma che s’arresta di nuovo dopo pochi secondi, quando si ritrova a distanza ravvicinata coi ragazzi che lo insultano, che gli dicono di andar via. Avrà fatto in tutto trenta metri, in questa via che è un relitto della Roma che verrà, un concentrato del grillismo più deteriore: un cancro di atrofia, più che di degrado, incistatosi in quello che pure resta uno dei quartieri più vivaci della capitale – e poi i rifiuti, ovviamente, i materassi abbandonati a bordo strada, i pannoloni sporchi rimasti impigliati nella sterpaglia che circonda questo rottame mastodontico e fatiscente, che un tempo ospitava “il borghetto” di artigiani e commercianti. L’ultimo, il sor Renato, ha resistito fino a luglio, poi i suoi ombrelloni è andato a farli, e venderli a Settecamini (“Non era più possibile lavorare, là: troppo casino, troppo spaccio, manco l’illuminazione la sera”).

 

Avrà fatto trenta metri ma ha ottenuto quel che voleva: perché mentre a decine lo insultano, lui sogghigna, dice che è colpa “degli idioti dei centri sociali” se non potrà deporre davanti al cancello dello stabile la rosa che tiene in macchina: come se non fosse stato il suo ufficio stampa a diramare la nota che informava con quasi tre ore di preavviso del suo arrivo (tornerà più tardi, nel pomeriggio, senza annunci e senza clamore, a rendere il suo omaggio alla ragazza morta, secondo una sceneggiatura come al solito impeccabile). Un paio di donne lo baciano, intanto: “Ci torno con la ruspa”, promette lui. Poi va via, lasciandosi alle spalle una nuvolaglia di tensione che subito deflagra: le due fazioni vengono alle mani, anche se pure la rissa è ridicola, subito si sfa in un parapiglia di sputi e spintoni, un calcio e poco più. Nello sfascio a cinque stelle, il salvinismo prospera, aizza l’indignazione quasi senza sporcarsi le mani, e poi lascia che tutto si compia, mentre la sede del Pd, duecento metri più su, è rimasta chiusa tutta la mattinata. Pure quella, tra le serrande abbassate.

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