Anna Maria Moneta Caglio fu la principale testimone d’accusa contro Piero Piccioni, cui erano destinate le lettere del fratello Leone, ora pubbiicate da Polistampa

Voglia di scandalo

Giuseppe Marcenaro

Una ragazza morta, i “capocottari”, le post verità anni Cinquanta: era il caso Montesi. Ora in libreria le lettere a un innocente in carcere

"E cominciarono a chiamarci capocottari". Nel suo studio di piazza San Lorenzo in Lucina, il divo Giulio evocava la nomea a suo tempo attribuita ai democristiani di rango. L’aveva tirata fuori con un autobiografico sarcasmo. Capocottari, genia di frequentatori i festini nella tenuta di Capocotta dalle parti di Castel Porziano… personaggi della nobiltà romana e rampolli di politici della giovane Repubblica italiana.

  

Occupò per mesi le pagine dei giornali, le aule dei tribunali, le chiacchiere del paese. Uno dei più clamorosi gialli del Dopoguerra

Quando Giulio Andreotti vagheggiava quei ricordi, da qualche anno era cominciato un nuovo secolo. Più che secolo era stato un millennio a voltare pagina. I fatti cui si riferiva il senatore erano avvenuti cinquant’anni prima, nel mezzo del complicato Novecento, e sembravano affiorare dalle pagine di un archeologico pasticciaccio brutto di stile gaddiano. Provenivano da un’età in cui sembrava vi fosse una visione diversa del mondo e i grovigli che il senatore evocava con compiaciuta ironia appartenessero a una dimensione “storica”, con tutta una serie di personaggi noti e meno noti che avevano riempito le pagine dei giornali, alitato mormorazioni nei salotti, nelle sedi di partito, nelle sacrestie, nelle sale dei passi perduti affacciate sulle aule parlamentari, dove uomini implicati nell’affaire cui faceva cenno il senatore gestivano il potere in un’Italia uscita da pochi anni dalla guerra: un paese impegnato nella ricerca di se stesso e presagente tempi di bengodi. Non era difficile intuire ciò che andava evocando: la trama di uno dei più clamorosi gialli che aveva occupato per mesi le pagine dei giornali, le aule dei tribunali e la chiacchiera di un paese.

 

Tutto aveva avuto inizio un sabato, l’11 aprile 1953, la vigilia di Pasqua. Sulla spiaggia di Torvaianica, litorale laziale, era stato rinvenuto il corpo di una giovane, che risultò poi scomparsa da casa da due giorni. Era una ragazza di origini modeste, figlia di un falegname, nata nel 1932 a Roma, dove risiedeva in via Tagliamento. Fidanzata con un agente di polizia in servizio a Potenza, aspirava a entrare nel mondo del cinema e, con modeste comparsate aveva già preso parte ad alcuni film. Era il prototipo di giovane del Dopoguerra divorata dall’ambizione e innamorata dell’avvenire. Si chiamava Wilma Montesi.

 

Rinvenuto da tal Fortunato Bettini, un manovale ch’ebbe il suo quarto d’ora di celebrità, il corpo della giovane, riverso sulla battigia, fu minuziosamente descritto: la gonna rialzata, senza calze e senza reggicalze, dettagli che accesero maliziose curiosità. I giornali ebbero materiali sufficienti per riempire colonne di mistero. La descrizione del corpo che fece il cronista giudiziario del Messaggero permise a Rodolfo Montesi, padre della ragazza, di presentarsi e riconoscere la figlia nel cadavere rinvenuto sulla battigia.

 

E venne così fuori che la giovane, contrariamente alle sue abitudini, due giorni prima non era rientrata a casa. Quel pomeriggio declinando l’invito della madre e della sorella di recarsi con loro al cinema per assistere alla proiezione del film La carrozza d’oro, aveva detto che non le piacevano i film con Anna Magnani. Forse sarebbe uscita per una passeggiata. Quando la madre e la sorella erano rientrate Wilma non c’era. Sul cassettone della camera da letto aveva lasciato i documenti e alcuni gioiellini di modesto valore che le aveva regalato il fidanzato dai quali Wilma non si separava mai. L’ultima a vederla, attorno alle 17 e trenta, la portinaia del caseggiato di via Tagliamento.

 

Quando i giornali, dando la notizia del ritrovamento del corpo rinvenuto sulla spiaggia di Ostia, poi riconosciuto dal padre, pubblicarono la fotografia di Wilma Montesi, saltarono fuori i soliti “testimoni”. Avevano visto la “ragazza del giornale” sul treno che da Roma portava a Ostia, da dove il gestore di un chiosco di cartoline, si presentò dichiarando d’aver conversato con una giovane somigliante a “quella del giornale”: aveva acquistato una cartolina. “Ha detto che voleva spedirla a Potenza, al fidanzato”.

 

E’ l’esplosione della mitomania. “Passa l’idea che la Dc sia un partito che vuole coprire gli scandali perché ha molto da nascondere”

Il corpo era stato trovato sulla spiaggia di Torvaianica, a una ventina di chilometri da Ostia. E come c’era arrivata Wilma Montesi al per lei fatale arenile?

 

All’Istituto di medicina legale di Roma la spoglia della ragazza venne sottoposta ad autopsia. Risultato: la probabile causa della morte “sincope dovuta a pediluvio”. Nello stomaco erano stati rinvenuti resti di un gelato che Wilma doveva aver consumato. Profittando della gita, avvicinatasi al mare, doveva aver pensato che un pediluvio avrebbe alleviato la fastidiosa irritazione ai talloni di cui – a detta dei familiari – soffriva da tempo. Si sarebbe allora sfilata scarpe e calze. Entrata in acqua era stata colta da malore. Così sentenziò il medico legale connettendo il fatto che la ragazza fosse anche nei giorni del ciclo. Scivolata, priva di sensi, Wilma Montesi sarebbe annegata.

 

La distanza tra Ostia – il presumibile ultimo avvistamento della ragazza – e la spiaggia di Torvainica, punto del ritrovamento, venne spiegata da una complessa combinazione di correnti marine che avrebbero favorito la “navigazione acquorea” del corpo. Dall’autopsia emerse che la ragazza era illibata e non aveva subito violenza Nonostante i “probabili” due giorni di immersione marina, il volto risultava ancora truccato e lo smalto sulle unghie delle mani intatto. Un altro medico, il professor Pellegrini, sentenziò che la presenza di sabbia nelle parti intime della ragazza poteva essere spiegata qual conseguenza di un tentativo di violenza sulla spiaggia. Nel sangue non vennero rinvenute tracce di stupefacenti o di alcool. Ritenuta attendibile l’ipotesi dell’incidente, accolta come causa lo svenimento da pediluvio, la polizia chiuse il caso. Come immaginabile, la “verità ufficiale” però non convinse. Il gioco dei quattro cantoni e delle verità incrociate è foriero di inimmaginati teoremi. Troppo semplice accettare una “soluzione” di un caso tutto sommato marginale quando i giornali, insufflati da “maestri rammentatori”, cominciarono a proporre “fantastici” scenari con in cartellone superbi interpreti: mattatori, prim’attori, soubrette, figuranti, caratteri e comparse.

 

Quella “storica” vicenda, a corroborare la memoria, riaffiora oggi con Lungara 29. Il “caso Montesi” nelle lettere a Piero (a cura di Gloria Piccioni, introduzione di Stefano Folli, Ed. Polistampa, 200 pp., 16 euro) . L’autore delle lettere, Leone Piccioni, era il noto critico letterario allievo di Giuseppe De Robertis e Giuseppe Ungaretti, docente alla Sapienza e allo Iulm, autore di saggi dedicati ai più importanti autori del Novecento italiano. Il destinatario delle lettere il di lui fratello Piero, implicato nel groviglione dei misteri del nominato caso Montesi, in attesa di processo, incarcerato innocente a Regina Coeli.

 

Ma come si era arrivati a coinvolgere il figlio di un ministro, Attilio Piccioni, altissimo esponente della Democrazia cristiana, destinato alla presidenza della Repubblica, nella storia di una fanciulla che era andata a mettere i piedi a bagno in un pomeriggio dell’aprile 1953 e che poi era stata trovata morta sulla battigia di una spiaggia laziale?

 

Lo “svelamento” affiora intanto dal testo di Folli anteposto al familiar carteggio tra i due fratelli Piccioni. “… Il 1953 è un anno di rilevanti novità politiche che annunciano tempi nuovi… La coalizione degasperiana, l’alleanza del 18 aprile ‘48, si stava avviando lentamente verso una crisi senza rimedio… Il gruppo dirigente fondatore, che si era formato negli anni della dittatura e si era imposto con i successi del Dopoguerra, viene sfidato da una nuova generazione il cui nome emergente è quello di Amintore Fanfani”. De Gasperi, presidente del Consiglio, sta uscendo di scena. Morirà un anno dopo… La circostanza pone un problema politico molto delicato a tutti i suoi collaboratori, primo fra tutti Attilio Piccioni, il naturale continuatore, il segretario della Democrazia cristiana del 18 aprile, “la personificazione di una vittoria che aveva cambiato il corso della storia”. Sono uomini che vogliono salvaguardare la loro idea dell’Italia. Fedeli al loro tempo non intendono mettere a rischio l’unità del partito cattolico. Dietro le quinte la lotta è più aspra di quanto appaia. I costumi italici sono ancora antichi, ispirati ai valori degli inizi del secolo. Per questi uomini i mutamenti di un paese che si sta riprendendo dalle distruzioni belliche costituiscono una sorpresa. Si tratta di un cambiamento epocale e basta cogliere i fatti che la cronaca propone e che i giornali riferiscono con crescente disinvoltura. E sarà la storia di una ragazza e di un supposto pediluvio a descrivere il lato oscuro di una società. Nulla come il caso Montesi racconterà come in quegli anni l’Italia stia cambiando. E’ l’esplosione della mitomania, gli esempi clamorosi di esibizionismo mediatico. “Il caso Montesi è la fotografia di un paese conformista e opportunista dove l’uso furbesco delle notizie muta in contesa per ricavarne un utile politico. Passa così l’idea che la Democrazia cristiana sia un partito che vuol coprire gli scandali perché ha molto da nascondere”.

 

Molti anni dopo Pietro Ingrao rievocherà quel tempo: “Ricordo che le prime notizie, le prime spiate sugli ambienti di Capocotta dove si erano svolti i fatti e quindi la spinta a occuparci del caso vennero da Amintore Fanfani e dai fanfaniani. Furono loro a metterci sulla pista, spingendoci a seguire bene la cosa. E noi trovammo appoggio negli ambienti del ministero degli Interni, dove c’era un segugio che ci passava le informazioni”. Sono parole che chiariscono tutti i dubbi e fanno intravedere una trama di rivalità fra corpi dello stato, desiderosi di compiacere chi di dovere. E fu così che l’ipotesi dell’incidente considerata attendibile dalla polizia e che chiuse il caso della fanciulla trovata affogata sulla battigia, riaffiorò sui giornali.

 

Il corpo di Wilma Montesi, 21 anni, fu trovato il giorno della vigilia di Pasqua del 1953 sulla spiaggia di Torvaianica

Il 4 maggio 1953 il Roma, quotidiano napoletano, cominciò ad avanzare l’ipotesi di un complotto per coprire i veri uccisori, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica: “Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?”.

 

Il 24 maggio del 1953 un articolo pubblicato sulla rivista comunista Vie Nuove, suscitò scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e definito “il biondino”, venne identificato in Piero Piccioni, un musicista jazz – noto col nome d’arte Piero Morgan – fidanzato di Alida Valli, figlio di Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri.

 

Leone Piccioni, il noto critico letterario, scrive al fratello Piero, implicato nel groviglio dei misteri. Il padre è il ministro degli Esteri

Si scatenarono i mitomani, “ammalati” di esibizionismo. Furono soprattutto ragazze furibonde di apparire nel circo mediatico che si prestarono a clamorose interviste. Il 6 ottobre 1953, il periodico scandalistico Attualità pubblicò “La verità sul caso Montesi” che si basava sul racconto di un’aspirante attrice ventitreenne, tal Adriana Concetta Bisaccia: aveva partecipato con Wilma a un’orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castel Porziano, non distante dal luogo del ritrovamento. In quell’occasione aveva avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici. La Bisaccia, sosteneva che Wilma Montesi dopo aver fumato “sigarette drogate” aveva avuto un malore. Il corpo esanime sarebbe stato trasportato da alcuni partecipanti all’orgia sulla spiaggia, e lì abbandonato. Tra i nomi citati nell’articolo, vi erano Piero Piccioni e Ugo Montagna, marchese di San Bartolomeo, proprietario della tenuta di Capocotta. attorno a cui ruotava il mondo dei vip romani.

 

Altri s’esposero al proscenio. L’agognante starletta Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta “Marianna”, già amante del Montagna, si “esibì” in una personal piece. Spiattellò ai giornali come la Montesi fosse diventata la nuova amante di Montagna e con l’aiuto di un gesuita produsse un memoriale in cui dichiarava la responsabilità di Piccioni e Montagna nella morte di Wilma Montesi. Il documento arrivò ad Amintore Fanfani, allora ministro dell’Interno. Una copia venne inviata al Papa.

 

“Quando un padre gesuita venne al Viminale a farmi leggere l’esposto di una sua penitente (o qualcosa di simile) – raccontò Andreotti, al tempo sottosegretario alla presidenza del Consiglio – lessi le prime due righe e gli dissi che non solo non lo trasmettevo a De Gasperi, ma lo classificavo tra quelle perdite di tempo che a Roma diciamo che servono a Natale a fare ora per la messa di mezzanotte”.

 

Fioccarono le querele. Il sipario si levò su nuvole di accuse e ritrattazioni. Tutto ciò mentre Piero Piccioni stava in una cella di via della Lungara 29. Come fu poi dimostrato, l’unica sua “colpa”, quella d’essere figlio di Attilio Piccioni, uno dei padri fondatori della Repubblica italiana, di cui qualcuno voleva disfarsi.

 

Il carteggio, emerso dagli archivi familiari e per la prima volta reso pubblico, consente adesso uno sguardo diverso, più intimo, lontano dai clamori sul caso Montesi che fu emblematica maniera di concepire politica, magistratura e il ruolo dell’informazione, i cui “sistemi”, tal sinistra “magagna”, continuano a sguazzare dentro ai tempi nostri.

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