Un'immagine del palazzo di giustizia di Palermo (foto Imagoeconomica)

Sciacalli di giustizia

Riccardo Lo Verso

Pane e antimafia (finta), consulenze e parcelle, sprechi di denaro. Dal caso Saguto a oggi, a Palermo i segni dello sfascio di un sistema

Se i parenti di un facoltoso possidente si fossero rassegnati alle sue volontà testamentarie, l’ultimo scandalo sarebbe rimasto confinato alle scartoffie del Tribunale palermitano. Siccome si trattava di un patrimonio immobiliare sterminato, era pure legittimo che i parenti di cui sopra non gradissero che tutto quel ben di Dio di case finisse a una fondazione. Risultato: testamento impugnato e nuova mala gestio scoperchiata. Macerie su macerie di una gestione giudiziaria da rivedere da cima a fondo.

 

Coinvolti nell’ultimo caso un professore dell’Università di Palermo e due avvocati. Mancano all’appello trecentomila euro

L’ultimo caso di cronaca coinvolge un professore di Diritto privato dell’Università di Palermo, Luca Nivarra, e gli avvocati Fabrizio Morabito e Walter Virga. Il primo era subentrato a Nivarra nella gestione del patrimonio del defunto possidente, entrambi nominati dalla Volontaria giurisdizione. Mancano all’appello circa trecentomila euro di affitti di immobili. Una parte del denaro Morabito ha detto di averla ritrovata in mezzo ai faldoni impolverati e l’ha consegnata agli investigatori. “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”, diceva Giulio Andreotti in una frase tanto celebre da essere ormai un detto popolare.

 

Walter Virga, invece, faceva l’amministratore giudiziario. Era entrato nelle grazie di Silvana Saguto, l’ex potente presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo (foto sotto). Un rapporto che ha finito per trascinarli assieme in Tribunale. L’ipotesi di accusa è che la giustizia sia stata piegata agli interessi dei singoli e nel contempo sia diventata una grande occasione di lavoro per una sfilza di personaggi allevati a pane e antimafia (finta, però). L’obiettivo primario sarebbe stato quello di accumulare consulenze e parcelle, sacrificando il bene primario della giustizia sull’altare degli affari.

 

 

Silvana Saguto (foto Imagoeconomica)

 

Nomine incrociate (oggi a te, domani a me): le amministrazioni giudiziarie sono diventate l’ufficio di collocamento per parenti e amici

Che ingenuità è stata quella di credere che le stanze dei magistrati e le aule dei tribunali fossero immuni dalle ruberie. Come se una toga, un tesserino professionale o una patente antimafia bastassero a fare da garanzia. E invece erano l’immaginetta sacra, il santino, da mostrare a chi sollevava dubbi e perplessità, la carta vincente per traslare certi metodi da un contenitore all’altro, da una professione all’altra. Le iniziali contestazioni a Saguto hanno provocato una mareggiata. La successiva risacca ha lasciato sull’arenile i segni dello sfascio del sistema Giustizia.

 

A nominare Nivarra, nel 2006, amministratore provvisorio dell’eredità era stato il collegio del Tribunale allora presieduto da Tommaso Virga, il papà del giovane Walter, pure lui rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e trasferito da Palermo a Roma quando è finito sotto inchiesta assieme a Saguto. Per lui il Csm non ha rilevato profili di contestazioni disciplinari e ha archiviato il procedimento conclusosi, invece, con il massimo della sanzione, la radiazione, per l’ex presidente delle Misure di prevenzione. La figura di Nivarra è stata una costante negli avanzamenti della carriera universitaria di Walter Virga, passato dall’incarico di “cultore della materia” a quello di ricercatore alla facoltà di Giurisprudenza. Quando fu scelto come amministratore giudiziario dei beni degli imprenditori palermitani Rappa il giovane avvocato si ricordò del professore e affidò a Nivarra due consulenze legali per trentamila euro. Sono le consulenze che la Procura bolla come inutili e per le quali ha chiesto di processare Nivarra e Virga. C’erano già degli avvocati a difendere gli interessi di due società del gruppo Rappa, ma secondo Virga, era necessaria la supervisione di Nivarra.

 

Indagini basate su circostanze pretestuose, il sequestro dei beni e un sistema che ha nella lentezza una delle sue devianze più gravi

Uno spreco di denaro, insomma, difficile da digerire quando a fare da contraltare ci sono le macerie delle amministrazioni giudiziarie. Guadagnare non è peccato. E’ la continenza che è mancata. Un esempio su tutti: agli imprenditori Niceta, un tempo leader nel settore dell’abbigliamento, dopo cinque anni è stato restituito il patrimonio. Restano gli immobili perché fisicamente era impossibile disfarsene, ma della catena di quindici negozi non c’è più traccia. I nuovi giudici, che hanno ricevuto il processo in eredità da Saguto, non sono stati teneri con i Niceta. Ne hanno sottolineato gli ombrosi rapporti personali con una nota famiglia mafiosa, i Guttadauro di Brancaccio imparentati con Matteo Messina Denaro, ma per emettere un decreto di confisca serviva ben altro. E così i Niceta, già scagionati in un’inchiesta penale, sono usciti indenni pure dal processo di prevenzione. Adesso è comprensibile che di fronte al fallimento quei soldi spesi per gestire aziende che sono andate in malora diventino una nota stonatissima.

 

Per anni è stata la fiducia l’unico faro della giustizia. Mi piaci, ti nomino amministratore. Mi piaci, ti nomino consulente. Fin troppo semplice per non prestare il fianco alle storture. Nomine incrociate delle serie “oggi a me e domani a te”. Le amministrazioni giudiziarie sono diventate l’ufficio di collocamento per parenti e amici. Come nel caso di un altro prof, Nicola Provenzano, della Kore di Enna, che faceva lavorare la moglie, il fratello e la cognata. L’amministratore si faceva in quattro per il suo presidente di riferimento. “Ciao prof, grazie di tutto, qua però tu ogni volta mi mandi un mercato, è un’esagerazione”, scriveva Saguto a Provenzano. Il magistrato aveva appena ricevuto i prodotti di un’azienda affidata dal collegio per le Misure di prevenzione alla gestione di Provenzano che dava indicazioni a un suo collaboratore. Sul furgone bisognava caricare “tabacchiera, ananas, pomodoro” per portarli “davanti alla scuola”. Si trattava dell’istituto di fronte l’abitazione del magistrato. Qualche giorno dopo fu la volta di “due cassette di fragole e due di ciliegie”.

 

Provenzano sarebbe entrato in gioco nella fase due dello scandalo Saguto. Quando Gaetano Cappellano Seminara, recordman di incarichi, iniziò a essere troppo chiacchierato Saguto avrebbe deciso di puntare su Provenzano e sul commercialista Roberto Nicola Santangelo. “Secondo un modulo operativo realizzato attraverso la commissione di delitti di falso ideologico connessi a delitti di abuso d’ufficio – scrivono i pm di Caltanissetta – licenziavano dipendenti della società oggetto di sequestro, spesso dotati di alta professionalità, al fine di inserire nelle amministrazioni giudiziarie propri familiari o conoscenti”.

 

E se il dogma della fiducia valeva per Provenzano figuriamoci per i magistrati. Il giudice Fabio Licata, pure lui sotto processo, ammise di non avere provato alcun imbarazzo per il fatto che fosse stato scelto Virga jr, e cioè il figlio di un collega. In tutti gli uffici giudiziari di Palermo – non solo misure di prevenzione, ma anche nei settori civile, penale e fallimentare – sono sempre stati dati incarichi a parenti di magistrati. Ed è giusto che sia andata così perché il parente di un magistrato, diceva Licata, si presume che offra garanzie di “affidabilità e moralità”.

 

A certi professionisti distratti sfuggono le intestazioni fittizie a Cosa nostra. Improbabili acquirenti con redditi da fame

Affidabilità e moralità che dovrebbero essere i requisiti basilari di certe professioni. Chi controlla il controllore? Figuriamoci quando controllore e controllato sono la stessa persona. Come nel caso del notaio, a cui lo stato delega compiti da pubblico ufficiale, persino quello di riscuotere le imposte. Dovrebbe essere il prete della carta bollata, colui a cui nulla sfugge. E invece dietro la sacralità dei suoi bolli si nasconde la tentazione del malaffare.

 

Il notaio Antonino Pusateri, originario di Termini Imerese, ma operativo ad Agrigento, ad esempio, non registrava gli atti e si metteva in tasca i soldi dei clienti. Sono state le indagini delle forze dell’ordine e dell’Agenzia delle entrate a fare saltare il banco. E che dire di quei professionisti distratti a cui sfuggono le intestazioni fittizie targate Cosa nostra? Improbabili acquirenti con redditi da fame si ritrovano proprietari di case e licenze commerciali. Si vestono da prestanome in cambio di qualche manciata di euro. Il notaio dovrebbe segnalare le operazioni sospette. Dovrebbe, appunto, perché troppo spesso non lo fa. Non sente l’olezzo delle compravendite maleodoranti che gli passano sotto il naso.

 

Il sistema Giustizia non ha mostrato di possedere gli anticorpi necessari per prevenire gli illeciti. Gli episodi smascherati sono la spia di chissà quante storture che restano nascoste sotto la polvere dei fascicoli delle sezioni dei tribunali, dove gli incarchi e le consulenze sono l’indotto dorato di una giustizia che ha perso credibilità. Si è annidato il tarlo che la cura sia peggiore della malattia. Mal si digerisce, ad esempio, che i commissari prefettizi incaricati di gestire una discarica nel Catanese, la Oikos, guadagnassero 45 mila euro al mese lordi. Stipendi ridotti della metà per l’intervento del Tar.

 

Che credibilità ha una giustizia simile? Le conseguenze sono devastanti. Ha preso corpo la convinzione che i sequestri siano stati una giostra creata per alimentare il mercato e assecondare i desiderata del cerchio magico. L’esito di alcuni processi di prevenzione, come quello dei Niceta, ne rappresenterebbe la conferma. Della serie, Saguto sequestrava e i suoi successori dissequestrano.

 

Ed ecco il conto che si aggiunge alla beffa di chi aveva un’azienda e adesso non l’ha più. Un conto salatissimo che paga non il singolo ma la collettività per l’incapacità di una giustizia di mostrarsi imparziale, oltre che esserlo. Leggendo le motivazioni di alcuni recenti provvedimenti tutto sembra tranne che le indagini si basassero su circostanze pretestuose. Sono i tempi, questi sì, inammissibili. Cinque anni, come nel caso dei Niceta, sono ingiusti. I proposti, così si chiamano in gergo tecnico le persone a cui vengono sequestrati i beni, hanno tutto il diritto di sentirsi vittime di un sistema che ha nella lentezza una delle sue devianze più gravi. Lo scandalo Saguto ha picconato la credibilità della giustizia. Sarà difficile ricostruirla, specie se dalle macerie continueranno a emergere figure senza scrupoli per i quali esiste solo il bene proprio.

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