Via D'Amelio, 19 luglio 1992. Un'autobomba viene fatta esplodere. Nell'attentato muoiono Paolo Borsellino e i cinque membri della sua scorta (foto LaPresse)

Crolla la sacralità dei giudici

Riccardo Lo Verso

Abbagliati dalle parole dei pentiti, sbagliano anche loro. Ma non si battono il petto. Il caso di via D’Amelio

Il dogma dell’infallibilità è crollato. Nessun mea culpa, però. Nel santuario della magistratura non ci si batte il petto. Piuttosto c’è una consolidata propensione a concedere l’indulgenza, che in alcuni casi diventa perdono.

Aveva ragione, ancora una volta, Leonardo Sciascia. Oggi, anno del Signore 2018, quasi cinquant’anni dopo la pubblicazione de “Il Contesto”, sugli altari dei palazzi di giustizia è stata sacrificata una grossa fetta della credibilità della magistratura.

 

“La giustizia non può non disvelarsi… Prima il giudice può arrovellarsi, ma nel momento in cui celebra, non più” (Sciascia)

Era il 1971. Così parlava il presidente della Corte suprema Riches immaginato da Sciascia nel suo romanzo: “Prendiamo, ecco, la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino, che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione, il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo…”.

 

Aveva iniziato a scrivere per divertimento. Finì per essere qualcosa di terribilmente serio. Perché quando si parla di giustizia non c’era e non c’è niente da ridere. Le parole di Sciascia andrebbero affisse nelle aule dei Tribunali, laddove si assiste alla caduta del mito dell’infallibilità dei magistrati. La toga è un paramento che ha perso la propria sacralità agli occhi della pubblica opinione.

 

Bisognerebbe fare i conti con i demeriti della magistratura prima ancora che con i singoli reati commessi dai giudici. Perché mai, d’altra parte, la magistratura dovrebbe essere esentata dalla presenza dei furfanti? Basterebbe una sincera ammissione di responsabilità. E’ una faccenda di buon senso, non di codice penale.

 

Qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater che a Caltanissetta ha smontato le bugie dei falsi pentiti sulla strage di via D’Amelio. Se non fosse intervenuta Fiammetta Borsellino, la più giovane dei figli del giudice trucidato, ancora una volta si sarebbe sprecata l’occasione per obbligare la magistratura a guardarsi allo specchio. Tutti a parlare e a scrivere, per primi i giudici della Corte di assise, del “più grande

Tinebra, oggi deceduto, è l’uomo su cui si addensano le ombre. Stessa cosa per il questore La Barbera, morto pure lui

depistaggio” della storia repubblicana. I farabutti di Stato hanno fatto convergere gli interessi di boss e menti oscure (e raffinatissime) sull’eccidio di via D’Amelio. Di misteri da chiarire, è vero, purtroppo ne restano troppi sul campo, ma senza le parole di Fiammetta Borsellino la magistratura l’avrebbe fatta franca, ancora una volta, spostando il ragionamento lontano dai palazzi di giustizia. E invece il Csm, “finora troppo silente”, non si è potuto esimere dall’assumere l’impegno di cercare di fare chiarezza sul ruolo dei magistrati che maneggiarono senza alcuna cura le dichiarazioni dei pentiti. Per cura, scrive il presidente della Corte di assise Antonio Balsamo, s’intende il rigore con cui andava valutato il racconto di Vincenzo Scarantino e soci. Un metodo per evitare di farsi raggirare dai pentiti esisteva già e l’aveva inventato Giovanni Falcone. Solo che in decenni di indagini e processi è stato disapplicato.

 

Insomma, non si trattò di una distrazione di massa, di un abbaglio collettivo, ma di un approccio sbagliato da parte dell’allora procuratore Giovanni Tinebra, dell’aggiunto Annamaria Palma, e dei sostituti Carmelo Petralia e Antonino Di Matteo. Errori di valutazione che sfuggirono successivamente anche ai giudici nei vari gradi di giudizio. Tinebra, oggi deceduto, è l’uomo su cui si addensano le ombre. Stessa cosa per Arnaldo La Barbera, morto pure lui, e cioè il questore che guidava il pool di poliziotti che indagavano sulle stragi di mafia. Nel loro caso c’è il sospetto di un comportamento doloso, sporcato da chissà quali interessi e trame oscure. C’è tanto di quel materiale da alimentare una nuova stagione giudiziaria.

 

Nelle motivazioni, per chi davvero ha voglia di leggerle, si possono scovare anche i nomi degli altri magistrati. Vengono messi in fila gli interrogatori chiave del falso pentito Scarantino. Il giudice Balsamo li trascrive, uno dopo l’altro, per evidenziare le menzogne del collaboratore, impegnato com’era a inventare, ritrattare e ritrattare la ritrattazione. Il punto è che se i magistrati fossero stati rigorosi il “più grave depistaggio” della storia sarebbe stato stoppato sul nascere. Il risultato è che le indagini e i processi sulla strage di via D’Amelio non sono ancora finiti e la verità, nient’altro che la verità, resta lontana.

 

Di fronte al crollo del mito dell’infallibilità della magistratura si aprono due strade. Si potrebbe chiedere scusa e ripartire ovvero fare finta di nulla, godersi i titoloni sul depistaggio e convincersi che la colpa è sempre e solo di qualcun altro che trama nell’ombra. Il primo è un gesto razionale, il secondo un atto di fede.

La sentenza del processo Borsellino quater a Caltanissetta ha smontato le bugie dei falsi pentiti sulla strage di via D’Amelio

Capita così che i difensori della verità a priori sentano il dovere di intervenire per puntellare il santuario che vacilla. Come Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, che si è affrettato a scusarsi con il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Di Matteo per le parole di “qualche mio familiare che ti ha accusato di essere coinvolto nel depistaggio Scarantino. Sono sicuro che per quel depistaggio sono altri i magistrati che debbono essere portati a processo. Quindi ti chiedo scusa per le amarezze che ti hanno portato queste incaute affermazioni che sono state fatte da membri della mia famiglia”. Non ha citato neppure il nome della nipote, nel solco di una frattura che esiste da sempre e che ha segnato la diversità nel modo di affrontare negli anni il comune dolore. Qui non si tratta di accusare uno o più magistrati di avere consapevolmente partecipato al depistaggio, ma di fare autocritica. E invece le colpe, quelle commesse in buona fede da una parte della magistratura, vengono perdonate come atto di fede. E’ una scelta precisa presa all’interno di un gruppo che negli anni ha finito per diventare una confraternita il cui verbo sono stati l’esistenza della Trattativa fra lo stato e la mafia e i sistemi criminali che avrebbero governato il paese.

 

Il perdono sì, neppure quando non viene richiesto, le scuse mai. Nessuno si è scusato, infatti, per tre decenni di indagini culminate con l’ergastolo inflitto a degli innocenti. Lo hanno fatto soltanto le due procuratrici generali di Catania che hanno chiesto la revisione delle condanne. Prima di loro, il silenzio di una dozzina di magistrati, Ora sul tavolo del Csm ci sono ben due pratiche aperte sulla strage Borsellino. Chissà se si avrà finalmente una spiegazione sul perché sia rimasto inascoltato il grido di alcuni magistrati e avvocati, sul tardivo deposito di documenti e confronti che avrebbero smentito Scarantino e soci, sulla gestione autonoma da parte di La Barbera degli interrogatori che, al contrario, dovevano essere coordinati dai magistrati.

 

Senza le parole di Fiammetta Borsellino la magistratura avrebbe spostato il ragionamento lontano dai palazzi di giustizia

Dalla Sicilia arriva parecchio lavoro per il Consiglio superiore della magistratura il cui perimetro di intervento, però, si limita ai profili disciplinari e di incompatibilità ambientale delle toghe. Bisogna averla fatta grossa per subire una sanzione. Come è accaduto nel caso di Silvana Saguto, ex potente presidentessa della Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata senza appello e senza neppure aspettare la condanna del processo di primo grado. I reati che le vengono imputati sono gravissimi, ma il Csm ha voluto lanciare un messaggio di rigore ed efficienza che raramente si vede.

Per tutti gli altri casi non resta che aspettare le poche righe che batteranno le agenzia per annunciare l’archiviazione delle istruttorie del Consiglio superiore della magistratura a cui le procure, una volta archiviate le indagini penali con i passi di un balletto già visto, hanno girato i fascicoli per le valutazioni del caso.

 

E’ accaduto ad esempio a Catania, dove non sono stati trovati elementi di rilevanza penale negli appunti in cui Antonello Montante, ex presidente della Confindustria siciliana caduto in disgrazia, citava una decina di magistrati. C’erano informazioni, tra gli altri, sul procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, e sull’ex procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari. Hanno incrociato tutti il potente Montante che, però, quando si trattava di parlare con i magistrati, era uno stimatissimo imprenditore in prima linea sul tema della legalità e dell’antiracket. Uno da prendere a modello, da citare negli atti ufficiali durante l’apertura dell’anno giudiziario, mica lo spregiudicato imprenditore raccontato dalle indagini e capace di creare un intreccio tale da meritarsi l’appellativo di “sistema Montante”. I magistrati hanno sempre il beneficio della buona fede che non viene riconosciuto con altrettanto zelo ai comuni mortali. E così, solo per fare un esempio, l’antimafia regionale siciliana guidata da Claudio Fava timbrerà il cartellino convocando tutti, ma proprio tutti – burocrati, politici, ex amministratori locali, giornalisti – per conoscere in che rapporti fossero con quel manigoldo di Montante. Una domanda che nessuno porgerà mai ai magistrati, ai quali semmai va chiesta una mano di aiuto. L’Antimafia infatti si avvale della consulenza dell’ex toga Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. Almeno è un incarico a titolo gratuito. Non come è avvenuto in passato, quando gli infallibili magistrati venivano assoldati come assessori e manager di società pubbliche. Sotto questo punto di vista le cose sono cambiate. La politica ha smesso, si spera definitivamente ma le ricadute sono sempre possibili, di riempire i vuoti della propria incapacità affidandosi a un magistrato per il solo fatto che indossasse una toga. Forse perché la toga ha perso la sua sacralità. Non si salva neppure la giustizia amministrativa dove cadono a ritmo serrato le pedine di un sistema corruttivo che pilotava le sentenze, da Siracusa a Roma. Bastava pagare per avere ragione in giudizio. Per la cronaca, non sarà però il Csm, ma un altro organo di autogoverno della magistratura, a decidere sul futuro dei giudici amministrativi.