Giovanni Falcone (foto LaPresse)

Così la giustizia ha dimenticato il "metodo Falcone"

Stefano Pistolini

Competenza e coordinamento alla base della ricetta del magistrato, rimasto isolato come una montagna in mezzo alla pianura. Un documentario con Giuseppe Ayala

Complice una gamba rotta che l’ha immobilizzato su una poltrona e forte delle sue doti affabulatorie, Giuseppe Ayala, parlamentare e magistrato a Palermo negli anni della guerra stato-mafia, ha accettato di trasformare le sue ricostruzioni orali sul pool guidato da Falcone-Borsellino, in un documentario tv (martedì 22 maggio, su SkyTg24 alle 21.30). Titolo: “Follow The Money: Giuseppe Ayala racconta il Metodo Falcone”, con la trasparente intenzione di accantonare il dolore e il rimpianto, concentrandosi su qualcosa di più concreto: l’analisi di come il pool antimafia coordinato da Antonio Caponnetto raggiunse risultati impensabili nell’opera di contrasto alle attività mafiose.

 

Ayala, magistrato in servizio alla procura di Palermo, non faceva ufficialmente parte del pool. Ma prima della riforma la giustizia italiana funzionava in un modo che a Falcone non andava a genio: il giudice istruttore svolgeva l’indagine, della quale consegnava i risultati al pubblico ministero incaricato di finalizzare il procedimento in sede giudiziaria. Se il pm era solerte e si preparava, le condanne arrivavano, altrimenti fioccavano le assoluzioni per insufficienza di prove, a cui le cronache di quegli anni ci avevano abituato.

 

Falcone cambia le regole: il pm deve stare al suo fianco, condurre l’indagine con lui, conoscere tutto dal primo momento. E’ così che Falcone e Ayala diventano, come ricorda il magistrato, una “coppia di fatto” e girano il mondo (gli States dove sono di casa negli uffici dell’Fbi e dove Rudolph Giuliani è il loro interlocutore, ma anche il Brasile e spessissimo la Svizzera, dove si assicurano la complicità della giovane Carla Del Ponte) seguendo i fili delle loro investigazioni. Che sono diverse da quelle condotte fino allora: niente caccia alle raffinerie, niente intercettazioni di partite di droga. Invece: follow the money, seguire i flussi finanziari, lavorarsi a dovere le banche, ispezionare conti correnti italiani e, a colpi di rogatorie, quelli apparentemente inespugnabili a Lugano. E’ la ricetta del “metodo Falcone”: acquisire competenza finanziaria e, dove le limitate forze del pool non bastavano, assicurarsi la collaborazione di un drappello di giovani finanzieri, traslocati armi e bagagli al Palazzo di Giustizia di Palermo.

  

Gli effetti sono lampanti: “Pizza Connection”, antipasto del Maxiprocesso, spedisce in galera un battaglione di mafiosi per reati di droga, senza che venga sequestrato un grammo di eroina. Sono le carte a cantare e Falcone non aspetta che gli arrivino, ma le recapita personalmente dove lo porta il solco dei pagamenti bancari. Gli esiti del Maxiprocesso sono il trionfo di questa strategia.

 

Poi subentrano i dissapori, i boicottaggi, le invidie e quel disastro che fu lo smantellamento del pool. Ayala ne parla ancor’oggi senza nascondere la rabbia: la mancata nomina di Falcone alla guida del pool rimane ai suoi occhi una colpa incancellabile del CSM. Le strade dei “professionisti dell’antimafia” si separano. Allo scoccare del 26esimo anniversario della strage di Capaci, Ayala ne parla con commozione. E Peppino Di Lello, superstite del pool, offre un suo contributo ancor più sconcertante nella sua semplicità: “Con Falcone raggiungemmo risultati per un motivo: perché si lavorava alacremente, le indagini erano serie e approfondite. Prima erano acqua fresca”. Peccato che il Metodo Falcone, con quei microfilm che si vedono nel doc e i rudimentali computer per schedare l’enorme mole di documentazione, sia rimasto lì, isolato come una montagna in mezzo alla pianura. La gente che lavorava sul serio, o era stata ammazzata o destinata ad altro incarico. Dove non potesse agitare le acque più di tanto, con quella fissazione di ficcare il naso nelle segrete stanze.