Quello che non torna della sentenza sulla “trattativa” Stato-mafia spiegato in dieci punti
La Corte d'Assise di Palermo ha depositato 5.252 pagine di motivazioni. Ma da un’analisi approfondita la decisione dei giudici risulta essere piena di “vuoti sostanziali”
La Corte d’Assise di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza emessa ad aprile sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, in cui sono stati condannati per il reato di “violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato” gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni (12 anni per entrambi) e Giuseppe De Donno (8 anni), l’ex senatore Marcello Dell’Utri (12 anni), Massimo Ciancimino (8 anni) i boss Leoluca Bagarella (28 anni) e Nino Cinà (12 anni). Assolto, invece, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.
A un’analisi approfondita delle motivazioni, la sentenza contiene diversi “vuoti sostanziali”. Ecco dieci punti su cui vale la pena concentrarsi:
1. Per la Corte d’Assise di Palermo la “trattativa accelerò la morte di Paolo Borsellino” per due ragioni, entrambe non basate su prove ma su mere congetture. Da un lato, si afferma che Totò Riina avrebbe deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, ma per sostenerlo i giudici fanno riferimento solo a “qualche convergenza” tra questa tesi e una conversazione che Borsellino avrebbe avuto con la moglie prima di morire, in cui il magistrato avrebbe “fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi”. Anche ammettendo che questa conversazione sia avvenuta, in questo modo non si dimostra in alcun modo che Riina sapesse della scoperta della trattativa da parte di Borsellino e della sua opposizione a un dialogo tra lo Stato e Cosa nostra.
2. Dall’altro lato, i giudici sostengono che Riina abbia fatto uccidere Borsellino dopo aver percepito la disponibilità dello Stato a una trattativa come un segnale di cedimento delle istituzioni. Anche su questo i giudici non individuano alcuna prova, ma affermano soltanto che “è logico e conducente” ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto positivo prodotto dalla strage di Capaci, abbia deciso di replicare con la strage di via D’Amelio. Zero prove.
3. Non si capisce perché di fronte a un presunto invito al dialogo da parte dello Stato, Cosa nostra avrebbe dovuto mandare all’aria ogni possibilità di trattativa uccidendo Borsellino (la logica, insomma, dovrebbe condurre a conclusioni diverse).
4. La conclusione dei giudici di Palermo è in totale contraddizione con la sentenza del processo Borsellino quater della Corte d’Assise di Caltanissetta depositata pochi giorni fa, specificamente incentrata sulla strage di Via D’Amelio, dove si afferma che Borsellino venne ucciso perché si stava occupando in maniera sempre più convinta dell’inchiesta mafia-appalti, non perché si fosse opposto a una trattativa.
5. Secondo i giudici di Palermo ad avviare la trattativa fu l’ex ministro Calogero Mannino, che però è stato assolto in primo grado nel giudizio abbreviato. Anche sul ruolo di Mannino i giudici ammettono, poi, di non avere prove e che le conclusioni sono dovute a una “valutazione logica dei fatti” (la loro).
6. Per i giudici, un ruolo determinante nella prosecuzione della trattativa sarebbe stato svolto da Marcello Dell’Utri, ma anche su questo in 5.252 pagine di motivazioni i giudici non riescono a riferirsi a uno straccio di prova, ma soltanto a “ragioni logico-fattuali” che dovrebbero spingere a “non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra”.
7. Sul ruolo di Dell’Utri i giudici ritengono credibili le confidenze fatte in carcere da Giuseppe Graviano, il boss che organizzò la strage di Via D’Amelio e poi quelle di Firenze, Milano e Roma. Ma Graviano sapeva benissimo di essere intercettato in carcere, tanto che lo ammise anche al suo compagno di cella in una delle conversazioni intercettate. Sono credibili le rivelazioni di un boss che sa di essere ascoltato e di poter inviare all’esterno messaggi ben studiati e con proprie finalità?
8. Nel nostro ordinamento vige il principio del “ne bis in idem”, secondo cui una persona non può essere processata due volte per la stessa fattispecie di reato. Eppure i giudici di Palermo si spingono a commentare la sentenza con cui Mario Mori e Sergio De Caprio sono stati assolti nella vicenda sulla mancata perquisizione del covo di Riina, sostenendo che la condotta degli ufficiali del Ros desta ancora oggi “profonde perplessità” e lanciandosi in una serie di valutazioni nel merito della vicenda che non spetterebbero ai giudici. C’è poi da ricordare che Mori, insieme al colonnello Obinu, è già stato assolto in via definitiva anche nel processo sulla latitanza di Provenzano.
9. Le motivazioni di una sentenza dovrebbero riferirsi ai soggetti interessati dal processo, senza spingersi ad avanzare valutazioni fantasiose su soggetti esterni che non hanno alcun coinvolgimento nel processo né la possibilità di difendersi (come Silvio Berlusconi).
10. L’incredibile tempismo con cui le motivazioni della sentenza di Palermo sono state depositate, a 90 giorni esatti dalla lettura del dispositivo e casualmente proprio il giorno dell’anniversario della morte di Borsellino, dà l’impressione di una mossa finalizzata a coprire con retorica e suggestione i vuoti sostanziali della sentenza.
L'editoriale del direttore