Massimo Campigli, "Scuola di danza", 1941 (l'anno in cui si interrompe il "Diario politico": Adriano Tilgher muore all'inizio di novembre, a 54 anni

Lezione di libertà in un'Italia cieca e disperata

Claudio Giunta

Il "Diario politico" evoca "l'epoca maledetta del nazionalismo", la catastrofe delle democrazie parlamentari e le virtù del liberalismo. L’attualità di Adriano Tilgher

Nelle storie del pensiero liberale italiano del Novecento Adriano Tilgher è praticamente ignorato. In realtà, poco meno che ignorato Tilgher è nella storia del pensiero italiano tout court, per ragioni che non è qui il luogo per approfondire ma tra le quali ha certamente contato il suo atteggiamento nei confronti del fascismo, un atteggiamento che si è giudicato non abbastanza fermo. “Purtroppo il Tilgher – ha scritto Eugenio Garin nelle Cronache di filosofia italiana – non si limitò a rovesciare malamente la prospettiva crociana nella dialettica storia-antistoria, attribuendo ogni valore vitale all’antistoria, ma [recensendo la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Croce] trovò il modo di fare in sordina la sua brava apologia del fascismo”.

  

Poco meno che ignorato nella storia del pensiero italiano per il suo atteggiamento verso il fascismo, giudicato non abbastanza fermo 

Ora, a parte ricordare il fatto ovvio che a mostrare fermezza contro il fascismo trionfante degli anni Venti e Trenta furono in pochi, pochissimi anzi tra coloro che rimasero in patria, conviene distinguere guardando alle date e alle circostanze. Dopo l’assassinio di Matteotti, Tilgher aderisce all’Unione Nazionale di Amendola, e sul Mondo di Amendola scrive di politica e cura, fino alla soppressione del quotidiano nel 1926, la critica teatrale, finendo vittima anche lui come altri collaboratori di aggressioni squadriste. Nel maggio del 1925 firma il manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce, e nello stesso anno pubblica un furioso attacco contro Giovanni Gentile, lo Spaccio del bestione trionfante. Nel saggio, Tilgher descrive se stesso come un membro della “povera gente dell’Opposizione, perseguitata dalla censura e dai sequestri”. Fino a quella data, insomma, non c’è nulla nell’atteggiamento di Tilgher che lo dichiari come un fiancheggiatore del regime, al contrario.Le cose cambiano nell’aprile del 1928, quando, recensendo appunto sulla Stampa la Storia d’Italia di Croce, Tilgher osserva che Croce non ha ben afferrato la necessità storica del fascismo, necessità che deriva dall’emersione, all’indomani della guerra, di quell’anima romantica, irrazionalistica, attivistica che era rimasta sopita nel primo mezzo secolo della storia italiana.

  

Come si spiega questa trasformazione? Che cos’è successo tra il maggio del 1925 e l’aprile del 1928? Per rispondere è bene riflettere, più che sulle idee di Tilgher, sulle vicende della sua vita. Tilgher non aveva cattedre, né a scuola né all’università. Aveva lavorato come bibliotecario: per più di un decennio all’Alessandrina di Roma; quindi, nel 1924, alla Nazionale di Roma. Nel 1925 aveva lasciato l’impiego per – scrive la vedova Lidia Tilgher in un opuscolo di ricordi – non meglio precisati “motivi politici e personali”: ma nella vicenda dovette avere un ruolo l’ostilità dell’allora ministro Gentile. Da quel momento, il suo unico introito viene dall’attività di pubblicista. Ma dal 1926 la sua collaborazione ai giornali si dirada. Tilgher, osserva il suo biografo Gian Franco Lami, “viene ridotto al silenzio. Si ritaglia piccoli spazi sul Becco giallo, sull’Italia che scrive, sulla Cultura di Cesare De Lollis, su L’Idealismo Realistico di Vittore Marchi, su Ricerche religiose di Ernesto Bonaiuti”. Non molto, per chi era ormai abituato a una platea nazionale. E – come ha mostrato Rosella Faraone alla luce delle lettere conservate nell’Archivio Tilgher alla Nazionale di Roma – è molto probabile che anche per riguadagnarsi questa platea Tilgher abbia mutato il suo atteggiamento nei confronti del regime.

  

Che cosa realmente Tilgher pensasse della storia e della politica italiana, almeno nel suo ultimo lustro di vita, lo si ricava dal suo Diario politico. L’autografo è formato da circa duecento fogli formato quaderno che contengono annotazioni, pensieri scritti in un arco di tempo che va – quasi ogni pagina è datata ad diem – dal maggio del 1937 all’ottobre del 1941. Annotazioni e pensieri copiati in bella, con pochissime correzioni, sicché è possibile che Tilgher pensasse a una futura pubblicazione. Certo è però che essa non avrebbe potuto avere luogo col fascismo ancora in salute, tanto è esplicita, in quelle carte, la critica all’illiberalismo del regime. Quale che fosse il progetto, Tilgher morì il 3 novembre del 1941, e il Diario venne pubblicato dall’amica ed esecutrice testamentaria Liliana Scalero nel 1946 per il piccolo editore romano Atlantica.

  

Nel 1925 lascia l’impiego di bibliotecario per “motivi politici e personali”. Poi si dirada la sua collaborazione con i giornali 

La caratteristica peculiare del Diario è quella di essere soprattutto un discorso sulla libertà, un discorso che deve parte del suo interesse dall’essere stato concepito negli anni più drammatici del secolo ventesimo, dal nascere come reazione a quel dramma. Si distingue perciò da un lato dai documenti dell’antifascismo militante per un costante impegno teoretico; ma si distingue anche dalle riflessioni che sul tema della libertà erano venuti svolgendo, negli anni Venti e Trenta, intellettuali come Croce o De Ruggiero, riflessioni che tendevano a mantenersi sul piano della speculazione filosofica. Detto in maniera più semplice: in molti punti, leggendo il Diario politico sembra di avere di fronte non un memorialista o un filosofo ma un vero saggista, nel senso etimologico del termine, da exigere: chi soppesa, chi esamina liberamente, con passione ma senza pregiudizi, sottoponendo le proprie idee al filtro della realtà piuttosto che a quello della bibliografia. Personalmente, non saprei mettergli accanto, in quegli anni, nessuna voce italiana: se non forse quella di narratori (appunto) che furono anche sommi saggisti come Vitaliano Brancati o Alberto Savinio.

  

Di fronte a un diario, anche se steso su un arco cronologico così ridotto, viene spontaneo domandarsi come evolva il pensiero dell’autore; e vedere se c’è un pensiero, o un fascio di pensieri che emerga con contorni abbastanza definiti da configurare una tesi, un’idea del mondo. Ora, quanto all’evoluzione del pensiero, quello che si percepisce è solo un incremento d’angoscia, a mano a mano che il nazionalismo italiano dei tardi anni Trenta sfocia nell’ingresso in guerra al fianco dei tedeschi. Quanto invece alla sostanza delle riflessioni, mi pare si possano isolare almeno tre nuclei tematici principali che restano al centro dell’attenzione di Tilgher durante i quattro anni del Diario.

Nel “Diario” un impegno teoretico che lo distingue dai documenti dell’antifascismo militante, ma anche dalle riflessioni di Croce 

Il primo nucleo tematico è il nazionalismo. Tilgher distingue tra patriottismo e nazionalismo, nel nazionalismo riconoscendo il peggiore degli inganni in cui possa essere irretito un popolo: e s’intende che pensa anche e soprattutto al popolo italiano, dal momento che definisce la sua come “l’epoca maledetta del nazionalismo”. Al fondo del patriottismo c’è un moto d’amore per il luogo in cui si è nati, per la famiglia, per il proprio popolo; al contrario, il nazionalismo è fatto “di orgoglio e di volontà di potenza trasposti dall’io al corpo collettivo”; l’uno protegge, l’altro aggredisce; l’uno lavora per la conservazione della pace, l’altro prospera nella guerra, la cerca. Come tanti altri hanno detto, il nazionalismo è una forma di soddisfazione vicaria: nascendo dal risentimento, esso offre “un risarcimento immaginario ai vinti della vita che sono l’enorme maggioranza, quindi è un sentimento per essenza plebeo, di massa, di folla. Chi non ha successo nella vita si consola con quelli della sua nazione”.

  

Questa distinzione tra amor di patria come libertà e amor di patria come volontà di potenza viene verificata da Tilgher sul piano storico. Il nazionalismo anteriore al 1848 è “un corollario dell’idea di libertà”, vale a dire che si batte in vista dell’autodeterminazione, ma appunto per questo riconosce il medesimo diritto agli altri popoli: “Ripassin l’Alpi, e tornerem fratelli”, è il motto dei patrioti italiani. Il nazionalismo successivo al 1848 cade invece nel dominio della forza, e il popolo che ne è vittima non si accontenta di essere padrone a casa propria, vuole dominare su quante più nazioni straniere è possibile.

  

Sul piano dell’etica individuale, il nazionalismo diseduca, perché la medesima logica della sopraffazione e dell’inganno che gli Stati nazionalisti fanno valere nel rapporto con gli altri Stati verrà fatta valere dai cittadini nel rapporto reciproco e in quello con le istituzioni. Sul piano della vita associata, il nazionalismo produce, da parte dello Stato, una continua ingerenza che adopera come suoi strumenti l’educazione scolastica e la propaganda. Da liberale, Tilgher guarda con preoccupazione a questo estendersi del potere statale ad ambiti della vita che stanno al di fuori della sfera della politica: “L’ideale dello Stato al massimo della tensione – scrive – è un popolo che pensi, creda, senta, ami, odi, come e quello che gli dice lo Stato e sol perché glielo dice lo Stato”.

  

Cresce l’angoscia, a mano a mano che il nazionalismo italiano dei tardi anni 30 sfocia nell’ingresso in guerra al fianco dei tedeschi 

Il secondo nucleo di pensiero del Diario riguarda la storia recente, e in particolare la crisi delle democrazie parlamentari e l’ascesa dei fascismi. C’è però un nesso molto stretto con la riflessione sul nazionalismo di cui ho appena detto, perché proprio nel fanatismo nazionalistico degli ex combattenti va visto, secondo Tilgher, uno dei motori del rivolgimento politico del primo dopoguerra. Come molti altri intellettuali della sua epoca, Tilgher vedeva nella Prima guerra mondiale l’evento che non aveva soltanto rotto l’equilibrio tra le potenze europee ma aveva determinato una crisi di civiltà il cui riflesso sul piano politico era stata la catastrofe dei princìpi liberali, del pluralismo liberale, soppiantati in buona parte del continente dal fanatismo del “principio unico”. Analogamente a Huizinga (La crisi della civiltà) e a Zweig (Il mondo di ieri), Tilgher pensava con nostalgia all’epoca tra il 1870 e il 1914, quel mezzo secolo in cui “i principi di libertà (liberalismo e democrazia), giustizia sociale (socialismo) e nazionalità (nazionalismo) lottavano fra di loro, e nessuno era giunto né alla totale supremazia e schiantamento degli altri, né alla coscienza perfetta di sé e delle conseguenze che si cova nel seno”.

  

Ora lo “schiantamento” era arrivato. E come Huizinga, morto nel febbraio del 1945, e Zweig, morto suicida nel 1942, Tilgher, morto nel 1941, non arrivò a vederne la fine, e il faticoso ristabilirsi degli ideali di quel mondo. Il senso di angoscia che si avverte nelle ultime pagine del Diario – nei mesi in cui il nazifascismo sembra avviato a una marcia trionfale, non solo in Europa ma nel mondo – è quello di chi ormai dispera del riscatto.

  

Quanto alla situazione italiana, Tilgher recupera l’interpretazione del fascismo come moto di reazione al biennio rosso e alla minaccia bolscevica che sin dai primi anni del regime era stata formulata da osservatori di diverso orientamento politico: “Così la Francia chiama Bonaparte perché le dia ordine e pace, e Bonaparte le dà l’ordine interno ma anche la guerra perpetua. Così l’[ltalia] chiama [Mussolini] perché la faccia finita per sempre con lo spettro della rivoluzione bolscevica ma [Mussolini] non si rassegna a un ruolo di gendarme e inizia una rivoluzione per conto suo”. Tale reazione mobilita soprattutto la piccola borghesia proletarizzata e i reduci:

La catastrofe delle democrazie parlamentari (1940) si spiega in ultima analisi così: un tipo d’uomo (reduci di guerra, amanti della guerra e del rischio, bramosi di comando e di potenza, fanatici del patriottismo, non disposti a transazioni e compromessi) ha battuto un tipo d’uomo tutto discussioni compromessi transazioni, rifuggente dalle decisioni estreme. Il reduce-partigiano armato ha sconfitto l’avvocato parlamentare.

Caratteristiche di questo reduce-partigiano nel suo agire nella sfera pubblica sono, oltre all’attivismo, la riluttanza al dibattito, la sfiducia nei confronti dei corpi intermedi (giornali, magistratura, sindacati), l’ostilità al parlamentarismo, alle mediazioni e alle lungaggini che esso impone; e i modi spicci e villani di chi è abituato a comandare o ad essere comandato. Impaziente di agire, di plasmare il nuovo corpo sociale, egli non si accontenta dello Stato come amministratore neutrale ma cerca la guida dello “Stato-comando”, dello “Stato-volontà di potenza”.

  


Renato Guttuso, "La madre", 1937. Datata un giorno di maggio del 1937 la prima pagina del "Diario politico", duecento fogli formato quaderno che contengono annotazioni e pensieri 


Il terzo nucleo di pensiero del libro è quello che più degli altri dovrebbe assicurare al Diario politico un posto eminente nella storia del pensiero liberale italiano del Novecento, e cioè la riflessione sulla libertà e sul liberalismo. Riflessione che si può scomporre in una parte d’impostazione più astratta, filosofica; e in una parte più radicata nella storia contemporanea, nella vicenda italiana degli ultimi due decenni; ma che è interessante e profonda proprio in quanto l’argomentazione del filosofo è nutrita dall’esperienza maturata dall’uomo durante gli anni del fascismo.

 

Lo si vede bene già nelle prime pagine del Diario, nelle note che vanno sotto il titolo Essenza del liberalismo. Qui Tilgher riflette su quello che si è soliti definire principio di tolleranza. “Che dire – scrive Popper nella Società aperta – se la volontà del popolo decide che non esso debba governare, ma un tiranno in sua vece […]? La tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”.

  

Tilgher si pone la medesima domanda (e lo fa – non è superfluo ricordarlo – nei medesimi anni in cui Popper lavora in Nuova Zelanda al suo saggio più celebre). Che cosa succede se “c’è il rischio che l’oppositore dei principi sommi, l’antiliberale, riesca a convincere il popolo ed a farsi una maggioranza?”. Sul piano dei princìpi, la risposta è che “il liberale, a rigore, dovrebbe permettere l’esperimento anche a rischio che ne resti distrutta la libertà”. Ma qui l’esperienza del fascismo viene a correggere e a limitare il principio astratto, e fa sì che Tilgher dubiti della possibilità che questa scommessa venga vinta, quindi dell’opportunità che la si accetti in partenza (ed è appunto, tenendo fermo il parallelo, la posizione di Popper):

[… Il liberale] non tiene conto che la servitù ha il suo fascino e la sua dolcezza, che vi sono altri valori morali che quelli della libertà, che i tiranni sanno spegnere così bene l’idea della libertà da renderne perfino odioso e ridicolo il nome.

“Il nazionalismo pre 1848 odia il padrone straniero in quanto padrone, l’altro lo odia perché straniero, non perché padrone” 

Il liberale deve dunque saper essere illiberale, quando la situazione lo richiede, salvo voler aprire la strada alla tirannide: ciò che appunto era accaduto in Italia nel 1922. La fede di Tilgher nella democrazia liberale non nasceva dall’idea che l’uomo, cosciente e sollecito del bene proprio e dell’altrui, può naturalmente autogovernarsi, ma al contrario dal suo pessimismo circa la natura umana. Gli uomini non sono buoni, e la loro indole non migliora quando passano dallo stato di natura alla vita associata. Dal lato dei governanti, c’è spesso in chi ama esercitare il potere una componente di sadismo, una “dilettazione gratuita del dolore altrui” che va mortificata imbrigliando e frammentando quanto più possibile quel potere. Dal lato dei governati, non facendosi illusioni circa la natura umana, la natura degli uomini associati, Tilgher non se ne faceva alcuna neppure circa quella porzione di umanità a cui il socialismo aveva affidato la causa del riscatto dei diseredati. Il Diario è pieno di giudizi sprezzanti circa la plebe, “ignorante, credula, obliosa” e circa la sua attitudine ad autogovernarsi: “Il paradosso della democrazia è ch’essa […] si fonda sulle masse che han sempre tendenza a cadere al livello della vita puramente materiale”.

Le pagine del Diario politico non sono le uniche che siano state dedicate alla libertà in quell’epoca illiberale. Ma, come ho accennato sopra, è difficile trovare pagine che siano state scritte a questo modo. La malinconica saggezza che Tilgher riversa in questo suo Diario fa pensare ai Ricordi di Guicciardini, soprattutto quando la riflessione si coagula in aforisma: “Qual è il miglior Stato? Quello nel quale vorrebbero vivere l’oppositore al potere fino a quando fa l’oppositore e chi ha il potere se perdesse il potere e diventasse oppositore”. Ma insieme fa pensare, quella saggezza, a Machiavelli, un Machiavelli preso però a rovescio, perché come Il principe era un libro scritto per spiegare in che modo si conquistano e si mantengono i principati, così il Diario è una riflessione su come gli Stati si avviano alla catastrofe. Crisi e decadenza sono le parole e i concetti che vi tornano più spesso, e che danno al libro una nota elegiaca di grande effetto patetico – pochi libri sono pessimisti quanto questo ma, come accade, un pessimismo ben argomentato finisce per dare sollievo, per risultare catartico.

  

Scriveva: “Spesso (come nel caso del bolscevismo) la dottrina di odio si ammanta di amore di giustizia e di uguaglianza” 

Il Diario politico non sarebbe però il grande libro che è se non ci fosse, dentro, una voce capace non solo di farsi ascoltare ma anche di convincere e di commuovere. Chi ha letto altri scritti di Tilgher può rimanere sorpreso, di fronte al Diario, perché questa non sembra, a tutta prima, la sua voce. I suoi libri precedenti non somigliano a questo. S’intende: benché misconosciuto, Tilgher è un eccellente saggista anche in molte altre sue pagine. Ma sino al Diario lo studioso aveva sempre proiettato la sua ombra sul saggista. Nel Diario, invece, senza che in centoventi pagine venga mai usato il pronome io, Tilgher ci dà una visione del mondo tanto personale ed intensa quanto quella che hanno saputo dare pochissimi scrittori italiani del pieno Novecento. Come quegli scrittori (a Savinio e Brancati, che ho nominato in apertura, si può aggiungere Flaiano), e benché il nome dell’Italia non torni più di cinque o sei volte nel libro, anche Tilgher scrive per frammenti una costernata antropologia italiana. Nel pensiero che segue, sui piaceri della servitù, parla genericamente delle miserie degli uomini, ma è chiaro che nella passione di obbedire e, insieme, di esercitare un proprio piccolo potere su qualche sottoposto non è difficile vedere rispecchiati gli italiani del ventennio, docilmente soggetti al padrone purché questo dia loro la possibilità o l’illusione di essere un po’ padroni a loro volta:

La servitù ha le sue dolcezze. Innanzi tutto, sopprime l’obbligo di pensare e di volere, affranca l’uomo dalle angosce della decisione e della responsabilità. Al legame dell’uomo verso i principî, la patria, ecc. sostituisce il legame dell’uomo all’uomo che è più concreto e perciò più comprensivo alla mente del popolo. Se poi alla servitù si accompagna un po’ di potere incontrollato verso qualche inferiore, tanto meglio: essere un tirannello rende più dolce la servitù. Fu un grande errore degli scrittori liberali credere che l’uomo aborre naturalmente dalla servitù. Questo è vero solo dei forti e risoluti caratteri, rarissimi nella servitù, e su cui la servitù esercita una selezione a rovescio.

  

In maniera analoga, nel pensiero che segue Tilgher riflette sull’inesauribile disponibilità all’odio che alberga nell’uomo, e nell’uomo moderno in particolare; ma è difficile non vedere nel partito dell’odio il partito che da vent’anni governava l’Italia – per esprimersi come Tilgher stesso aveva fatto scrivendo nel 1921 a Luigi Salvatorelli – menando le mani:

C’è nell’uomo un bisogno di odiare che reclama soddisfazione. Ciò spiega il successo delle dottrine e dei partiti che edificano sull’odio. L’età moderna ha visto il successo grandioso di tre dottrine fondate essenzialmente sull’odio: il nazionalismo fondato sull’odio allo straniero – il bolscevismo fondato sull’odio al privilegiato – il razzismo fondato sull’odio di razza. Spesso (come nel caso del bolscevismo) la dottrina di odio si ammanta di amore di giustizia e di uguaglianza. Ma ciò che veramente è vivo sotto il manto di quelle parole è l’odio, come si vede dalla durezza estrema con cui i seguaci di quelle dottrine trattano l’eguale, il compagno.

   

In queste pagine Tilgher recupera l’interpretazione del fascismo come moto di reazione al biennio rosso e alla minaccia bolscevica 

Ma lo stigma dell’italianità, il tratto saliente del carattere italiano è – allora come oggi – la retorica. Quando parla non di volontà ma di “vanità di potenza”, quando irride i parvenus della politica per il loro inebriarsi di “titoli e ciondoli”, Tilgher si rivela davvero fratello di nemici giurati dei retori come Savinio o Brancati, anti-italiano come loro. Tanto l’uno quanto l’altro – e non è un complimento da poco – avrebbe potuto scrivere le righe che seguono:

Non si è valutato abbastanza il peso che la rettorica può avere come fattore storico. Un popolo può entrare in guerra per rettorica, cioè per amore del gesto e della frase […]. Solleticando la vanità e la boria del popolo, il suo amore dei bei gesti e delle frasi pompose, i fautori di guerra lo spingono alla guerra, naturalmente dipingendogliela come facile breve sicura. Entrati nel giro della guerra, non è più facile uscirne: il potere dei dirigenti è accresciuto, la guerra provoca un gran giro di denaro e chi ne beneficia è interessato alla sua continuazione, chi fa udire parole di pace è accusato di tradimento. La rettorica seguita a lavorare, ma sempre più difficilmente a mano a mano che la guerra dura e si scopre difficile e pericolosa. Vanità, boria sono passioni che non danno le forze per una seria e lunga resistenza, per la quale ci vogliono passioni profonde e convinzioni radicate. A un bel momento, a un grosso insuccesso, essi cedono e si ha la catastrofe.

  

Scrivendo alla curatrice Liliana Scalero, la vedova di Tilgher, Livia, rimpiangeva il fatto che il Diario politico del marito non fosse stato pubblicato subito dopo la Liberazione, com’era nei piani: in tanto fiorire di “diari e memorie”, quella voce a lungo dimenticata avrebbe trovato il suo pubblico. Ma la verità è che il Diario politico appartiene a una famiglia diversa da quella dei diari e delle memorie, una famiglia di opere meno effimere, perché anziché limitarsi a fissare sulla carta la descrizione di un essere umano o di un’epoca ci restituisce il carattere di un popolo osservato nello specchio della sua storia. Sciascia ha scritto una volta che I promessi sposi sono, tra l’altro, “un disperato ritratto dell’Italia”: a pochissimi libri del Novecento questa definizione si attaglia meglio che al Diario politico di Tilgher.

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