Matteo Salvini in visita a Genova. Foto LaPresse

Contro gli sciacalli del cambiamento

Claudio Cerasa

Dalla ricerca del capro espiatorio alla fine dello stato di diritto. Perché le reazioni al crollo di Genova mostrano il dramma di un paese ostaggio degli estremisti e incapace di fermare il tracollo della sua credibilità

Le incredibili reazioni registrate nelle ore successive alla tragedia di Genova ci dicono che accanto al dramma umano, cioè alle decine di vite inghiottite dal cedimento del ponte Morandi, esiste un dramma simmetrico che riguarda un crollo non meno grave di quello del viadotto che collegava Genova con il Piemonte, e quel crollo è legato alle ragioni per cui negli ultimi mesi è improvvisamente precipitata l’affidabilità del nostro paese. A tre giorni dal tracollo del ponte Morandi nessuno ha ancora elementi sufficienti per spiegare con certezza che cosa sia andato storto. Ma l’approccio scelto dalle principali forze politiche per rispondere alla tragedia di Genova ci dice molto sulle ragioni che stanno trasformando l’Italia in un paese sempre meno affidabile e sempre più ostaggio degli estremismi.

   

Nessuno sa come quel ponte è crollato e di chi sono le responsabilità. Ma nel giro di poche ore i principali azionisti del governo hanno sentito il bisogno di trasformare la tragedia in un terreno su cui costruire una campagna elettorale e in più occasioni sia Salvini sia Di Maio hanno scelto di usare la grammatica della cultura del sospetto per offrire agli elettori alcuni scalpi, alcuni capri espiatori. Matteo Salvini, non potendo ricorrere in questo caso all’arsenale retorico della xenofobia, ha dato la colpa del crollo del ponte Morandi ai “vincoli europei”, senza sapere che l’Italia in realtà in materia di infrastrutture è uno dei principali beneficiari della flessibilità e che proprio grazie alla flessibilità ottenuta negli ultimi anni sul Patto di stabilità ha potuto stanziare dal 2014 al 2020 circa 2,5 miliardi di euro in fondi strutturali per infrastrutture di rete e altri 8,5 miliardi di euro a partire dall’aprile 2018 per investimenti sulle autostrade italiane. Luigi Di Maio, non potendo ricordare chi è stato negli ultimi dieci anni ad aver contribuito a bloccare la costruzione di una infrastruttura che avrebbe permesso di trovare un’alternativa al ponte Morandi, ha diffuso notizie false per sfregiare la famiglia azionista di maggioranza di Autostrade (“Benetton ha sede in Lussemburgo e non paga le tasse in Italia”, falso), ha inventato altre fake news per dimostrare che i presunti responsabili del crollo del ponte Morandi sono in combutta con i suoi avversari (“Benetton ha finanziato le campagne elettorali del Pd”, falso anche questo) e ha spinto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (che per ironia della sorte è stato invece avvocato di Aiscat, l'associazione Italiana Società Concessionarie Autostrade e Trafori) a passare come una ruspa sopra ogni principio minimo di stato di diritto affermando di essere pronto ad annullare la concessione ad Autostrade (penale di 20 miliardi di euro, annullamento che nel frattempo si è già trasformato in sanzione) e di non voler in nessun modo “aspettare i tempi della giustizia” per identificare i responsabili del disastro di Genova.

  

Ci si potrebbe anche fermare qui per spiegare in che modo la credibilità di un paese può essere messa a rischio da un processo sommario – senza parlare di come l’avvio di una procedura di revoca in assenza di una istruttoria seria sia, come ha notato l’ex direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli, il modo migliore per bloccare ogni contributo privato ai progetti di project financing. Ma se vogliamo c’è un dato ulteriore che vale la pena mettere a fuoco e che è quello notato bene dall’Independent che, osservando da lontano il dramma politico conseguente al dramma umano, nelle ore successive al crollo del ponte di Genova non ha potuto che notare un aspetto elementare della questione: “Incolpare i vincoli di bilancio dell’Ue è chiaramente sbagliato: i lavori di miglioramento pianificati che avrebbero potuto evitare il crollo sono stati aspramente contrastati da uno dei partiti della coalizione di governo”. 

  

Il dato paradossale della tragedia di Genova in fondo è anche questo ed è che i principali azionisti del governo stanno facendo di tutto per trasformare il crollo di un ponte non nel simbolo di un’Italia che ha bisogno di meno burocrazia, di più efficienza, di più manutenzione, di migliori opere pubbliche, di uno stato più responsabilizzato, ma nel simbolo di un’Italia che deve smetterla di costruire, che deve smetterla di pensare in grande e che deve imparare a considerare l’immobilismo non come un vizio ma come una virtù. L’Italia sottomessa alla dittatura del no, in fondo, è la stessa Italia che non riesce a svincolarsi dalla cultura dei veti quando si parla di alta velocità, di oleodotti, di infrastrutture. E da un certo punto di vista la storia del dramma genovese ci dice anche che la famosa Gronda che avrebbe dovuto collegare il capoluogo ligure con le autostrade del nord alleggerendo il traffico sul ponte Morandi non sarebbe stata bloccata se la politica non avesse prestato il fianco a tutti quei comitati che da anni, da quando nel 2001 la Gronda venne inserita nel programma delle infrastrutture strategiche approvato dal Cipe il 21 dicembre 2001, provano a portare avanti un’equazione che è anche la cifra di questo governo: grandi opere uguale grandi sprechi.

   

Ieri, per non farsi mancare nulla, Luigi Di Maio ha giustificato il metodo del capro espiatorio usato contro gli azionisti di Autostrade per l’Italia mostrando il crollo in Borsa (ieri mattina meno venti per cento) della holding che controlla la società (Atlantia). Ma se davvero gli sciacalli del cambiamento sono interessati a cogliere le indicazioni offerte dagli investitori ci permettiamo di segnalare un altro problema forse persino più grave dell’andamento in Borsa della società dei Benetton. Un problema che coincide con due dati precisi che stanno segnando la stagione del cambiamento populista: il crollo della Borsa italiana (meno dieci per cento dal giorno del giuramento del governo a oggi) e l’innalzamento del differenziale di rendimento tra i titoli italiani e quelli tedeschi (anche ieri lo spread è arrivato a un passo dai trecento punti base, circa duecento punti in più rispetto alla fase precedente al 4 marzo, e come ha scritto ieri il Telegraph “le turbolenze dei bond in Italia sono ormai una minaccia globale molto più grande rispetto a quella rappresentata dalla Turchia”). Il crollo del ponte di Genova ci dice che in Italia esistono gravi problemi legati al modo in cui lo stato monitora le aziende a cui appalta dei servizi (se c’è una lezione da cogliere nel dramma del ponte Morandi, vale per questo governo e vale anche per i governi precedenti, è che la gestione di una concessione non può limitarsi all’incasso dei diritti ma deve inevitabilmente avere una ricaduta anche sul monitoraggio diretto della sicurezza). Ma le reazioni al crollo del ponte di Genova ci dicono anche altro. Ci dicono che un paese ostaggio di una politica sottomessa all’Italia dei veti, della demagogia, degli estremisti del no, dei processi sommari, degli sciacalli è un paese destinato ad alimentare ogni giorno di più una spirale al centro della quale c’è un crollo persino più preoccupante rispetto a quello drammatico di un ponte: il tracollo progressivo della sua affidabilità e il collasso inevitabile della sua credibilità.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.