A Genova continuano le ricerche dei dispersi e la messa in sicurezza (foto LaPresse)

Fare di un ponte il manifesto delle virtù italiane

Claudio Cerasa

Uno stress test contro l’inefficienza. Come trasformare la ricostruzione a Genova nel simbolo della forza di un paese

C’è un’alternativa alla politica degli sciacalli? Il 10 luglio del 1976, in uno stabilimento della piccola città brianzola di Meda, al confine con il comune di Seveso, si verificò un grave incidente che per molto tempo fece discutere l’opinione pubblica italiana. In quell’occasione, in una fabbrica della società Icmesa, il sistema di controllo di un reattore chimico andò in avaria e quel guasto causò la fuoriuscita e la dispersione di una velenosa nube di diossina, che nel corso dei giorni andò a ricoprire i cieli di diversi comuni limitrofi nella bassa Brianza. Seveso è stato il peggior disastro ambientale della storia italiana, e uno dei più gravi della storia europea, e una volta accertate le responsabilità di quell’avaria la classe dirigente europea, e non solo dunque quella italiana, ebbe uno scatto di orgoglio e decise di dotarsi per la prima volta di una politica comune in materia di prevenzione dei grandi rischi industriali attraverso l’approvazione di una direttiva europea che costrinse gli stati membri a identificare i propri siti a rischio. La storia della Direttiva Seveso è utile da riscoprire oggi nella misura in cui ci sia qualcuno nel nostro paese desideroso di trasformare il disastro del ponte Morandi a Genova non nel simbolo di un’Italia destinata inevitabilmente a crollare ma nel simbolo di un’Italia diversa, capace di trasformare una situazione difficile in una opportunità utile a mostrare al mondo le capacità straordinarie di un paese. Immaginare che un governo incapace guidato da pericolosi sciacalli del cambiamento sappia affrontare con competenza e razionalità il percorso che da qui ai prossimi mesi porterà alla ricostruzione del ponte Morandi (cinque mesi, magari) è un’impresa decisamente complicata. Ma se in Italia ci fosse una classe dirigente all’altezza dei suoi compiti, non ci penserebbe un attimo a fare del dramma genovese una grande occasione non per conquistare consensi a colpi di fake news ma per mettere in campo il meglio di ciò che sa offrire il nostro paese. Per farlo occorrerebbe smetterla di occuparsi di stupidaggini, occorrerebbe mettere da parte la politica del capro espiatorio, occorrerebbe rinunciare al metodo del processo sommario, occorrerebbe ristabilire i valori non negoziabili di uno stato di diritto, occorrerebbe avere la pazienza di capire cosa davvero è andato storto nel monitoraggio del ponte e occorrerebbe infine far diventare la ricostruzione di una infrastruttura importante una sorta di grande stress test relativo ai tabù dell’Italia.

 

Non è solo una questione retorica e non è solo una questione legata alla velocità nella ricostruzione del ponte. E’ qualcosa di più profondo che riguarda alcuni vizi misteriosamente trasformati in virtù dal peggio dell’opinione pubblica italiana. Fare della ricostruzione del ponte il simbolo di una ricostruzione italiana è possibile solo rendendosi conto che il vero dramma del nostro paese è relativo non ai famigerati costi della politica ma alle clamorose inefficienze di una macchina statale che può funzionare solo a condizione che vi siano processi decisionali veloci capaci di combattere alla radice il principio di irresponsabilità che governa buona parte del sistema burocratico. Per capire questo, per andare a fondo nel problema, sarebbe necessario per esempio avere il coraggio di razionalizzare le procedure autorizzative. Sarebbe necessario considerare la frammentazione delle competenze nell’attuazione dei programmi infrastrutturali come un punto di debolezza e non come un punto di forza del nostro paese. Sarebbe importante dare ai privati l’opportunità di investire in Italia garantendo il rispetto dei contratti, evitando gli sciacallaggi politici, destinando ogni anno una parte fissa del pil agli investimenti infrastrutturali e creando una nuova figura pubblica alle dipendenze della presidenza del Consiglio, come chiede da anni l’Ance, capace di coordinare e facilitare il processo di realizzazione dei programmi e degli interventi infrastrutturali. Sarebbe importante inoltre che la politica presente e passata si assumesse le proprie responsabilità in materia di monitoraggio dei servizi concessi a società private. Sarebbe importante fare del crollo di una infrastruttura difettosa non il simbolo di un paese che deve rinunciare a costruire grandi infrastrutture perché non ne è capace ma al contrario il simbolo di un paese che ha urgentemente bisogno di grandi infrastrutture capaci di accelerare la velocità di crescita dell’Italia.

  

Sarebbe importante fare tutto questo così come sarebbe importante denunciare chi usa la magistratura amministrativa per rallentare i lavori a colpi di ricorsi e così come sarebbe importante ancora dotarsi di una figura indipendente capace di monitorare la costruzione delle infrastrutture con un’invasività minore rispetto a quella messa in campo dall’Anac. Sarebbe importante fare tutto questo così come sarebbe importante chiedersi perché i grandi gruppi imprenditoriali italiani specializzati in costruzioni (pensate al Gruppo Salini) abbiano scelto di dirottare i propri investimenti più fuori dall’Italia che all’interno dell’Italia. Sarebbe importante chiedersi questo e sarebbe importante chiedersi infine se l’incapacità del nostro paese di attrarre il maggior numeri di capitali stranieri nella costruzione di grandi e piccole infrastrutture sia dovuta più all’abuso delle auto blu o più a un sistema burocratico che per permettere la realizzazione di un’opera prevede almeno nove step fissi. Primo: approvazione presso l’amministrazione competente. Secondo: approvazione del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Terzo: approvazione del progetto da parte dei Beni culturali. Quarto: approvazione da parte del ministero dell’Ambiente. Quinto: approvazione degli addetti alla verifica dell’impatto ambientale. Sesto: approvazione del Dipe. Settimo: approvazione del Cipe. Ottavo: parere del Mef. Nono: registrazione della Corte dei conti. Due anni fa, a sud del Giappone, a Fukuoka, a causa di un terremoto si aprì un’enorme voragine larga trenta metri e profonda quindici metri su una strada a cinque corsie nel cuore della città. In appena due giorni gli operai riuscirono a richiudere il tratto della strada e riuscirono a dimostrare cosa sa fare uno stato che funziona quando vuole mostrare al mondo la sua capacità nel mettere in campo un modello di efficienza.

 

Un ponte che crolla non è come una voragine e un pilone che collassa non è come la diossina che si diffonde nell’aria. Ma se l’Italia avesse una classe dirigente con la testa sulle spalle, di fronte al tracollo del ponte Morandi non ci penserebbe due volte a trasformare un problema drammatico in un’occasione non per esporre ghigliottine ma semplicemente per trovare soluzioni. Il vero cambiamento sarebbe questo. Tutto il resto è solo carne per sondaggi e sciacalli.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.