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Perché dopo Genova non si deve più dire No alle grandi opere

Annalisa Chirico

“Il futuro è nero se prosegue la criminalizzazione demagogica del ‘fare’ infrastrutture”. Parla Ercole Incalza

Roma. “Noi ingegneri, di fronte a simili tragedie, ci sentiamo responsabili dell'accaduto”, esordisce così Ercole Incalza. Dopo la tragedia di un ponte spezzato, di decine di vite inghiottite nel vuoto. “Quella delle costruzioni è una scienza esatta: infrastrutture progettate per un volume di traffico quotidiano di circa 10 mila veicoli non sopportano il passaggio di 60 mila automezzi al giorno, protrattosi per anni, anzi per decenni”. Luigi Di Maio se la prende con i Benetton, Matteo Salvini tuona contro l’Europa: la ricerca del capro espiatorio annienta lo spazio per la riflessione. “I governanti dovrebbero rendersi conto che non è il momento della propaganda”, prosegue Incalza che, trent’anni addietro, insieme al Premio Nobel Wassily Leontief, redasse il Piano generale dei trasporti. “Leggo una sfilza di commenti improvvisati – dice l’ex capo della struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture – Il problema manutentivo esiste ma va sottoposto al vaglio giudiziario, chi spara giudizi affrettati manca di serietà”.

 

Il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli annuncia la costituzione di parte civile “perché le famiglie meritano di essere risarcite”. Eppure i controlli sugli interventi manutentivi sono in capo al dicastero: se emergesse una carenza, il ministero di Porta Pia sarebbe chiamato a risponderne. “Ormai si fa a gara a chi la spara più grossa. Il contratto di concessione definisce gli oneri a carico del concessionario e applica una formula matematica per fissare, di anno in anno, i livelli tariffari in funzione degli investimenti effettivamente realizzati. Una eventuale nazionalizzazione sarebbe una sciagura. Lo stato non ha le risorse per costruire e manutenere le opere. Quando i soldi ci sono, come nel caso dei fondi comunitari, non siamo in grado di impiegarli. Se l’assetto trasportistico nazionale ha compiuto un salto di qualità, ciò è stato possibile grazie ai capitali privati. Il modello del pedaggio, che garantisce al concessionario un ritorno sull’investimento iniziale, va preservato. Chi plaude al crollo del titolo Atlantia in Borsa, dimentica che, oltre ai Benetton, ci sono azionisti di minoranza in sofferenza”. Genova è un polo strategico nel quadro delle reti transeuropee di trasporto. “La Legge Obiettivo del 2001 – riprende Incalza – prevedeva un apposito intervento per il nodo ferroviario e stradale del capoluogo ligure. Di faraonico non c’era nulla se si considera che quella legge mirava a realizzare una rete infrastrutturale capace di ridimensionare un danno annuale di circa 60 miliardi, la somma che l’Italia continua a versare per via dell’assenza di un impianto infrastrutturale adeguato. Grazie a quella legge, oggi ingiustamente demonizzata, nell'arco di dieci anni è stato possibile appaltare e realizzare opere per circa 75 miliardi di euro”. Le infrastrutture si capiscono quando non ci sono più. “In seguito all’incendio del traforo del Monte bianco nel 1999, si comprese che il valico non è un problema di asse ma di rete. All’epoca esplose il transito verso la Svizzera che, non a caso, aumentò i pedaggi. Nel 1967, anno di inaugurazione del ponte Morandi, sulla rete nazionale circolavano merci per un totale di 19 milioni di tonnellate; oggi il carico ammonta a 190. Il terzo valico, osteggiato dai soliti alfieri dell'immobilismo, ha alleggerito il traffico sulla delicata bretella genovese; la Gronda, una volta realizzata, contribuirà a ridurre la pressione sulle quattro autostrade che oggi confluiscono alle spalle della città”. Contro l’infrastruttura alternativa, Beppe Grillo tuonava: “Dobbiamo fermarli con l'esercito”. “Danno degli irresponsabili ai Benetton ma la responsabilità del crollo è di chi si è opposto pervicacemente a ogni soluzione. Se la politica non avesse ceduto al comitatismo locale, l’opera sarebbe già in piedi. Invece, per volontà della Regione, si preferì assecondare il territorio”.

 

Classe dirigente ostaggio delle masse

La sindrome Nimby. “Da amministratore delegato della Tav, partecipavo alle riunioni della Conferenza dei servizi dove vigeva la regola dell’unanimità: il sindaco di un paesino poteva bloccare l'intero cantiere; poi la legge obiettivo impose il voto a maggioranza. Prima o poi, ci renderemo conto della paralisi generata dalla sottomissione alla cultura del no. In barba a qualunque principio democratico, le ultraminoranze organizzate primeggiano. Eppure non è stato sempre così. Abbiamo creduto nel rilancio del sistema ferroviario realizzando mille chilometri di alta velocità che hanno rivoluzionato le abitudini di milioni di cittadini. Abbiamo creduto nel processo di reinvenzione gestionale di grandi aziende pubbliche come Anas e Ferrovie dello stato: da aziende prive di bilancio le abbiamo trasformate in società per azioni. Abbiamo creduto nei nuovi valichi lungo l’arco alpino come cordoni ombelicali in grado di collegare il nostro paese con il resto d’Europa”. Poi qualcosa è accaduto. “Le grandi opere sono diventate sinonimo di corruzione, materia di campagne moraleggianti.

 

Una classe dirigente debole si è fatta ostaggio del comitatino No Tav, No Tap, No Triv, esaltando il ritorno all’età della pietra. Per i cultori del sospetto, ogni abbozzo di progetto cela la volontà malavitosa di un costruttore o di un dirigente pubblico. Nel mio caso, ho patito l’umiliazione di quindici avvisi di garanzia, seguiti da altrettanti proscioglimenti. Per il sol fatto di aver sempre obbedito a un’unica parola d’ordine: fare”. Lungo il sentiero della decrescita un patrimonio di competenze e tecnologie rischia di essere dilapidato. “Il futuro è nero. Anziché invertire la rotta, si prosegue secondo lo schema degli ultimi anni: interventi bloccati per carenza di risorse o intoppi procedurali, come quelli imposti dal Codice degli appalti. In assenza di un’intuizione strategica, rimane soltanto la demagogia”.