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Stato di incertezza

Carlo Alberto Carnevale Maffè e Pasquale Cirillo

Dire di “nazionalizzare tutto” per azzerare i rischi è un inganno, farlo può avere conseguenze peggiori

Dobbiamo imparare a convivere con l’incertezza. L’umana avversione al rischio ci spinge a credere nelle rassicuranti certezze spacciate da politici millantatori, o nelle ricette facili e miracolose di ciarlatani e populisti. Tuttavia i ponti crollano, gli aerei cadono, gli edifici bruciano, le imprese e gli Stati falliscono: nonostante le roboanti promesse – o gli strepiti postumi – della politica, azzerare completamente il rischio è e rimane impossibile, non solo per fenomeni naturali come i terremoti, ma anche per incidenti che riguardano opere dell’uomo. Va ricordato che, dal punto di vista tecnico, si parla di “rischio” quando è possibile calcolare la probabilità di un dato evento quantitativamente, cioè quando si riesce a identificare e valutare i cosiddetti “stati del mondo”, ossia tutte le eventuali realizzazioni di un fenomeno aleatorio. Quando questo non è possibile, anche solo in parte, si opera in condizioni di incertezza: e bisogna, con onestà intellettuale e pragmatismo, ammettere e dichiarare di non poter garantire razionalmente una piena copertura assicurativa, né tantomeno una completa garanzia “politica” che un evento nefasto, per quanto raro, estremo, mai osservato prima, non si possa verificare. E anche nel caso di calcolabilità, una corretta gestione del rischio richiede l’ordinamento dei rischi, individuando quelli che è possibile controllare date le risorse scarse e invocando umilmente prudenza per i rimanenti. Il politico che promette al popolo l’intervento dello Stato per “azzerare i rischi” relativi a un’infrastruttura tramite la sua nazionalizzazione è quindi doppiamente ingannevole: in primo luogo, perché millanta un’inesistente capacità di annullare ogni rischio, negando le condizioni d’incertezza, con l’effetto di generare nei cittadini un eccesso di confidenza e/o una riduzione della ragionevole prudenza; in secondo luogo perché la mancata separazione tra controllato e controllore, a parità di altre condizioni e di livelli di incompletezza dei contratti, tende a ridurre il livello di vigilanza e quindi ad aumentare la probabilità di incidenti, oltre che ad amplificarne l’impatto. Vediamo perché.

 

Il primo motivo è riconducibile al cosiddetto “paradosso della barriera” (“fence paradox” in inglese). Quando in seguito a qualche evento negativo si crea una protezione, una barriera appunto, la sola presenza di questo riparo ci porta a fidarci, modificando la nostra percezione del rischio. Ma se troppe persone si appoggiano, fiduciose, alla stessa barriera, questa può facilmente cedere, causando notevoli danni, che qualcuno dirà poi imprevedibili, quando sarebbe bastata solo un po’ di prudenza. E’ quanto successe ai tempi del fallimento Lehman, con le varie “barriere finanziarie” create dalle norme di Basilea II, che favorirono l’azzardo morale di chi pensa di non dover mai sostenere i costi della propria imprudenza, di chi si illude di poter prezzare correttamente strumenti finanziari altamente rischiosi, di chi conta sempre sul salvataggio ultimo, ingegneristico o finanziario, dello Stato.

 

Lo abbiamo visto anche nei recenti casi di messa in liquidazione di alcune banche italiane: i risparmiatori che avevano investito in strumenti finanziari emessi dagli istituti in default, spesso con rendimenti nettamente superiori ai tassi di mercato, e quindi chiaramente più rischiosi, confidavano nell’implicita promessa di protezione assoluta dei propri investimenti da ogni significativa perdita, invocando l’art. 47 della Costituzione, che parla di una generica “tutela del risparmio,” ma che certo non prevede la garanzia assoluta a carico dello Stato per ogni investimento privato.

 

Non solo la promessa di azzeramento del rischio è ingannevole, ma ha spesso anche l’effetto di trasferire il rischio a terzi meno protetti. Come spiegato dall’economista Sam Peltzman, l’accumularsi della regolamentazione e delle tecnologie per la sicurezza stradale ha incentivato un comportamento più rischioso e disattento da parte dei conducenti, trasferendo il rischio su pedoni e ciclisti. L’effetto Peltzman è tuttora visibile: l’adozione di sistemi radar anti collisione sulle moderne autovetture ha aumentato la tendenza di chi guida ad affidarsi passivamente a essi, distraendosi, e sempre più spesso disimparando a parcheggiare senza sensori. Secondo l’Aci, le cause di tre quarti degli incidenti stradali sono associate proprio alla distrazione del conducente, anche per l’eccesso di confidenza nelle tecnologie di sicurezza attiva. In questi casi non basta minacciare il ritiro della patente: un altro economista, Gordon Tullock, suggerirebbe – provocatoriamente – di imporre per legge l’installazione di uno spuntone di metallo al centro del volante al posto dell’airbag, così da riequilibrare nel comportamento del conducente il fenomeno di compensazione del rischio. Il secondo motivo è legato alla teoria dei contratti. Quando si tratta di decidere se la gestione di un bene o servizio di pubblica utilità debba rimanere in capo allo Stato o possa essere data in concessione ad attori di mercato, non è sufficiente basarsi su valutazioni finanziarie, ma bisogna considerare anche la natura del “contratto” di concessione (nella fattispecie, una convenzione). Il premio Nobel Oliver Hart ha distinto diversi livelli di “incompletezza” dei contratti, spiegando che per incarichi caratterizzati da fattori di elevata incertezza, come la politica estera o la difesa militare, la scelta più razionale è la gestione diretta dello Stato; mentre per affidamenti relativi a compiti di routine, come la raccolta dei rifiuti o la manutenzione stradale, è più efficiente il ricorso a concessioni, purché sottoposte alla costante e competente azione di vigilanza di un’autorità di regolazione indipendente, non “catturata” dai soggetti regolati. 

 

Quando però lo Stato pretende di internalizzare la gestione di un’attività di sostanziale routine, promettendo poi “sicurezza assoluta” per i cittadini, bisognerà paradossalmente attendersi, oltre alle prevedibili inefficienze economiche, anche un contro-intuitivo aumento del rischio e dei costi correlati a un eventuale disastro imprevisto. Infatti, venendo a mancare un’efficace separazione tra controllato e controllore, si riduce il livello di supervisione e si lasciano deperire le competenze tecnologiche e organizzative necessarie a misurare correttamente i rischi calcolabili; senza contare che spesso si ritardano con grave negligenza i tempi di sostituzione di tecnologie obsolete o d’investimento in nuove infrastrutture.

 

Se lo Stato dimostra puntualmente di essere un pessimo controllore del privato, quando a questo è assegnata una concessione, sulla base di quale miracolo organizzativo lo stesso Stato sarebbe più affidabile e efficiente nel controllare sé medesimo? Poiché sono portati a “fidarsi” delle garanzie dello Stato, i cittadini (ma spesso anche le associazioni di difesa dei consumatori e le organizzazioni territoriali) compensano la ridotta percezione del rischio aumentando comportamenti opportunistici e imprudenti; talvolta si oppongono deliberatamente alla realizzazione di infrastrutture più moderne, spesso in base a pregiudizi infondati o per il fenomeno noto come “sindrome Nimby (Not In My Back Yard)”: i ponti, le ferrovie, i gasdotti sono dannosi e non servono; e quand’anche servissero, non vanno costruiti nel giardino di casa mia, nella mia valle, sulla mia costa, ma altrove. Il risultato di questo contesto di azzardo morale e mancata distinzione di responsabilità è che, quando accade un evento nefasto, prevedibile o meno, i danni finiscono per essere maggiori di quelli che si sarebbero avuti in uno scenario di corretta separazione dei ruoli e rigorosa valutazione del rischio, scatenando cinici scaricabarile, invece di lasciare spazio alla lucida analisi delle cause organizzative, tecnologiche o ingegneristiche degli eventi dannosi.

 

Ogni eventuale riferimento al caso specifico della prospettata nazionalizzazione delle attività di gestione, manutenzione e ampliamento della rete autostradale italiana è affidato ai lettori. Con buona pace di Salvini e Di Maio, un evento tragico come il crollo del ponte Morandi a Genova può avere diverse cause, spesso dipendenti tra di loro. Processi sommari e decisioni a favore di telecamera non servono a nulla, non evitano che certi eventi si ripetano. L’ingegneria moderna ci permette di costruire opere un tempo inimmaginabili e sicure, dove con sicure non si deve intendere al cento per cento prive di rischio, perché ciò non è semplicemente possibile. Le opere vengono definite sicure in quanto minimizzano e gestiscono tutti i rischi identificabili, prevedendo anche buffer di protezione ulteriore, nella ragionevole previsione che siano sufficienti (ma non vi è garanzia alcuna) a tamponare l’imprevedibile.

 

Ancor prima di una pur sempre opportuna analisi dei costi e benefici finanziari sulle scelte di concessione o di gestione diretta di servizi da parte del governo, quindi, è necessario fare alcune considerazioni di sintesi: a) chi sostiene che esista il “rischio zero” mente, perché racconta la favoletta di un mondo fatto di certezze; b) chi dice che si possa eliminare ogni rischio mente, perché è la definizione stessa di rischio a essere “rischiosa” e non necessariamente univoca; c) chi dice che si possa prevedere ogni rischio mente, salvo credere in maghi e fattucchiere. Tutto questo non significa che non si debba fare il possibile per mitigare e gestire il rischio, che non ci si debba adoperare per evitare di correre i rischi prevedibili e modellizzabili, che non sia opportuno intervenire per limitare sofferenze e disagi, che non si debbano sanzionare gli errori, che non si debba credere nella possibilità di migliorare il nostro approccio al rischio, o che non si debba invitare i cittadini, in ogni scelta politica su infrastrutture e servizi, alla ragionevole prudenza e alla necessaria responsabilità. Al di là di ogni evento di cronaca contingente, accettare rischio e incertezza non significa essere passivi, e rassegnarsi all’impossibilità di gestirli almeno in parte. Significa semplicemente prendere coscienza che vi sono dei limiti, che tutto è fallibile, che nessun politico serio può garantire l’azzeramento del rischio, anche quando pienamente identificabile. Significa studiare, cercare di capire, e vedere nel rischio e nell’incertezza anche il lato positivo, quello che genera opportunità, e innovazione. Quella che Gerd Gigerenzer, direttore dell’Harding Center for Risk Literacy dell’Istituto Max Planck di Berlino, chiama l’alfabetizzazione al rischio sarà sempre di più una competenza necessaria per gestire un mondo ogni giorno più complesso.

 

Carlo Alberto Carnevale Maffè, Bocconi University School of Management

Pasquale Cirillo, Delft University of Technology