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Martina e la sindrome di Stoccolma del Pd

Redazione

Inseguire solo l’elettorato che ha abbandonato il partito, e non la propria constituency riformista e i ceti medi urbani, e inseguire il populismo sulle nazionalizzazioni anziché parlare di riforme è un autogol

La condizione del Partito democratico è obiettivamente difficile e a prendersela con il segretario provvisorio Maurizio Martina sembra di sparare sulla Croce rossa. Tuttavia si fatica a sottrarsi all’impressione che Martina sia vittima di una specie di sindrome di Stoccolma. Quando parla del “nodo della nostra distanza da larghe fasce di cittadini” sembra volersi rivolgere soltanto all’elettorato che ha abbandonato il Pd, di volerlo inseguire verso i lidi protestatari e populisti, rinunciando a dare rappresentanza e peso all’elettorato che invece continua a confidare nel Pd. Il fatto che si tratti soprattutto di ceti medi, di residenti nei centri urbani più che nelle periferie, viene sentito quasi come una colpa. Un partito, qualsiasi partito e a maggior ragione uno che nutre l’aspirazione a una vocazione maggioritaria, deve naturalmente puntare ad allargare l’area del consenso, ma a partire da quello di cui già dispone.

 

Inseguire gli avversari sul terreno della demagogia e dello statalismo strisciante, invece di difendere il valore della modernizzazione che ha avuto un suo fulcro nei processi di privatizzazione, è un cedimento strutturale, che può avere conseguenze deleterie non solo per il Pd. Si può e si deve discutere delle forme specifiche delle privatizzazioni, correggere gli errori e superare le troppo ampie zone grigie in cui è cresciuta la mala pianta dell’irresponsabilità. Negare invece il senso di marcia generale verso una società e un’economia aperte significa un ritorno a una preistoria della sinistra di cui nessuno, se non qualche estremista ideologizzato, nutre alcuna nostalgia. A cominciare dagli elettori del Pd.

 

Quando Martina parla di un Pd che si rimette “in strada fianco a fianco alle persone che vogliamo rappresentare” esprime una sorta di volontarismo attivistico ma anche una specie di spaesamento, una sotterranea contraddizione tra chi si rappresenta e chi si vorrebbe rappresentare. La campagna che descrive il Pd come partito delle élite lontano dal popolo non può essere affrontata con un populismo di serie b, che peraltro non sarebbe concorrenziale con quelli che si sono affermati e ora debbono affrontare la prova di realtà che ogni giorno si presenta più esigente. Per governare servono anche esperienza e competenza, il che significa perone esperte e competenti, accettare che a queste si appiccichi l’etichetta di élite antipopolari è sbagliato in generale, autolesionista per un partito che dovrebbe invece farsene vanto. Senza presunzione ma anche senza quel complesso di colpa che esprime , magari inconsciamente, il suo segretario, per fortuna provvisorio.

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