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Il coronavirus e la differenza fra una statistica e una vita

Adriano Sofri

Vorrei salutare quelli che gli eufemismi chiamano “anziani” e che l’eufemismo opposto, urgente a rassicurare gli altri, chiama “malati, già compromessi”. Quelli che stanno sul ciglio fra gli ancora vivi e i non ancora morti

Vorrei salutare le vecchie e i vecchi cui il virus ha già dato il colpo di grazia, e quelli che lo aspettano. Quelli che gli eufemismi chiamano “anziani”, e però l’eufemismo opposto, urgente a rassicurare gli altri, chiama “malati, già compromessi”. “Sarebbero morti anche per una normale influenza”, ha detto ieri una brava professionista, dimenticando la differenza fra una statistica e una vita. Quelli che stanno sul ciglio fra gli ancora vivi e i non ancora morti. Mi pare di conoscerli, sono uno di loro. La vita, quando la nominano, è quella che hanno vissuto. C’è un resto, è prezioso, ma dissuade dal fare progetti, fosse anche uno sgombero. Hanno bensì voglia di dedicarsi a cose che vadano oltre, piantare un ciliegio, sottoscrivere un’adozione a distanza controfirmandone la durata. Hanno nipoti e pronipoti, calcolano che non vedranno la loro vita adulta, vogliono solo esserne felici e garantire loro bei ricordi. Coi nipoti bambini hanno in comune l’apprensione per i pinguini antartici, per i quali gli adulti non hanno tempo. Sanno che non c’è niente di più terribile delle sciagure che invertono il corso della natura, falcidiano i giovani e lasciano i vecchi, come le guerre e gli assedi, come certe epidemie sessuali più maligne e invidiose. Con la morte stanno come con una vicina di stanza, certa e insieme distratta, capace di un volubile tempo supplementare. Hanno coetanei, o quasi, che si comportano come se non sentissero quella vicinanza, Donald Trump o Bernie Sanders, e li guardano con una curiosità scettica o disgustata. Quando muoiono, per essersi seduti a giocare a carte in un bar di paese sfortunato, o per essere andati per la prima volta in un pronto soccorso sbagliato a curare un malessere qualunque, si meraviglierebbero di essere morti – “deceduti”– del coronavirus. Anche se si siano disabituati a pensare che si muore di vecchiaia sanno comunque che di vecchiaia si vive, e che a volte un impulso improvviso può scuoterli come un ricordo antico, come una primavera di febbraio che sente la gelata, ma mette fuori lo stesso un suo fiore.

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