(Foto LaPresse)

Il senso delle missioni

Adriano Sofri

I titoli deformati sull’incidente in Kurdistan e il retrotesto di emozione, pacifismo e cinismo

Senza alcun intento né piacere di polemica, bisogna dire che tutti i media italiani tra domenica e lunedì hanno incautamente deformato la notizia sull’esplosione che ha ferito i cinque militari italiani nel Kurdistan iracheno titolando sull’“Attentato contro i militari italiani”. L’hanno accostata alla tragedia e all’avventatezza di Nassirya. Hanno continuato a parlarne e scriverne così anche dopo che voci di responsabili militari e diplomatici avevano usato il termine di “incidente”. I media internazionali intitolavano tutti, molto più appropriatamente, sui “militari italiani feriti da un’esplosione”, da un “roadside blast”, eccetera. Era successo che i militari italiani, di cui si sono giustamente forniti i nomi, appartenenti a forze speciali universalmente apprezzate per la loro bravura professionale e umana, erano finiti su un ordigno esplosivo artigianale, uno Ied, uno degli innumerevoli collocati nel territorio in cui operano, facendolo detonare e restandone feriti insieme a due dei peshmerga curdi che accompagnavano. I militanti dello Stato islamico, e non solo loro, sarebbero certo felici di colpire i militari del contingente italiano e delle altre forze della coalizione internazionale, ma quello di domenica non è stato un “attentato contro i militari italiani”, e i cittadini italiani hanno ricevuto una informazione sbagliata, capace forse di accrescere l’emozione – la commozione per i feriti era fuori discussione – e di condizionare l’opinione circa le missioni militari all’estero. Si sono riascoltate voci, sinceramente accorate o angosciate oppure sincerissimamente ciniche e interessate, sulla malvagità del ricorso alle armi, la sua incostituzionalità, il sacro egoismo e così via.

 

Gli italiani, allo stesso modo dei tedeschi, hanno partecipato della guerra contro l’Isis nella coalizione internazionale fissandosi la precondizione di non impegnarsi in combattimento ma di agire nelle retrovie, addestrando le forze locali, sorvegliando i luoghi e gli impianti (alla diga di Mosul sono stati sostanzialmente sostituiti dagli americani), operazioni di supporto, come il rifornimento in volo degli aerei impegnati a bombardare o il controllo attraverso i droni, quest’ultimo prezioso proprio per la ricognizione sugli Ied, per cui gli italiani sono specialmente qualificati. Si può denunciare l’ipocrisia di un “ingaggio” le cui condizioni servono a far passare i suoi attori come non combattenti, per attenuare l’opposizione pacifista, ingente in Italia e ancor più in Germania, e magari a sperare di esporsi meno alle rappresaglie terroristiche dell’Isis. Ma battere il Califfato nell’unico modo in cui si poteva, con una forza soverchiante di armi e una prodezza adeguata sul terreno – la coalizione ci ha messo la prima, soprattutto dall’alto dei cieli, curdi e yazidi e iracheni e altre fanterie ci hanno messo la seconda –, non era solo (solo?) la scelta di difendere popolazioni e gruppi umani da un fanatismo genocida, né solo la difesa mascherata di interessi materiali e di gerarchie geopolitiche: era ed è una difesa necessaria da una minaccia che investe la stessa convivenza di casa nostra.

 

Con gli attentati terroristi, con gli spostamenti di popolazioni, con la brutalizzazione della vita civile. Mi è incomprensibile e sgradevolissimo l’argomento così caro agli “esperti” sul prestigio che l’Italia si procurerebbe attraverso il generoso impegno nelle missioni militari estere, come se fossimo ancora alla spedizione di Crimea. L’investimento nel prestigio e nella riconoscenza è quello che hanno fatto i curdi del Rojava e, diversamente, i curdi iracheni, e si è misurato il risultato, per i secondi nella liquidazione derisoria del referendum sull’indipendenza, per i primi nel rinnegamento e nell’abbandono. Si sono risentiti molti degli argomenti tipici dell’apparente buon senso pacifista, rianimati dalla commozione per i corpi mutilati di uomini valorosi in missione per conto nostro e da uno svelto oblio della paura del terrorismo jihadista – miopissimo oblio, perché bande come lo Stato islamico dopo al Baghdadi sono sommamente bisognose di portare a segno qualche colpo d’effetto per riguadagnare il prestigio del terrore. Di questi argomenti è esempio la frase sugli affari, sul business, che tutto domina e spiega. Donald Trump è lì per confermarlo, del resto. Ma gli umani non si muovono solo per il business, non è vero che solo l’argento faccia la guerra: il fanatismo pseudoreligioso islamista è una delle incarnazioni di scelte che travolgono intere collettività e le spingono a un’abnegazione indiscriminata. I titoli sbagliati sull’“Attentato contro gli italiani” si sono accompagnati coerentemente al commento su una resurrezione dell’Isis che si dava per finito. Ma non era finito e non bisognava darlo per tale: le alture che costeggiano, a poca distanza, l’autostrada fra Erbil e Kirkuk sono state pressoché senza interruzione riparo di cellule jihadiste, e lungo l’intero periodo successivo alla liberazione di Mosul le incursioni soprattutto notturne di commando dell’Isis vi sono state endemiche. Quanto agli Ied, sono l’arma principale cui l’Isis ricorre specialmente quando è costretto a ritirarsi da un territorio per i bombardamenti della coalizione e l’avanzata curda o irachena, e l’addestramento allo sminamento e ancor prima alla scoperta dei modi in cui i micidiali congegni vengono mascherati è una parte preminente dell’addestramento dei nostri militari.

 

Infine, ora ci si interroga sulla “segretezza” dell’operato dei militari della missione e in particolare dei reparti speciali, che è la più ovvia delle condizioni. Non dovevano trovarsi sul terreno, non dovevano accompagnarsi ai peshmerga da loro addestrati, dovevano rigorosamente restare recintati negli spazi destinati alle esercitazioni al riparo da rischi di contatto col nemico e le sue risorse? Non so, lascio ad altri queste domande: e le risposte, magari, agli stessi feriti e ai loro compagni. Le cosiddette missioni militari all’estero hanno comunque costituito la manifestazione più profonda del cambiamento nelle nostre forze armate dopo la fine del servizio obbligatorio, e hanno dato a un numero rilevante di giovani cittadini italiani un’esperienza del mondo, della cosiddetta globalizzazione e dei cosiddetti sovranismi, da cui la pubblica opinione e conversazione avrebbe molto da guadagnare, se se ne occupasse ragionevolmente.

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