Epitaffi da lasciare agli eredi

Adriano Sofri

Una cena con Staino e Roberto Barni. L'amore di Dante e quello di Michelangelo 

Benché avessimo conversato con piacere e competenza di Achille Lauro e Morgan al Tenco, dopo aver chiarito con alcuni commensali più introversi che non si trattava dell’armatore, quello delle scarpe spaiate, la cena prendeva inesorabilmente un andamento vieppiù offeso col mondo, in proporzione alle vivande consumate. E avendo io ammonito Staino – “Sergio, non siamo più quelli di prima” – lui mi ha rimesso a posto: “Tu non sei mai stato quello di prima”. L’ho aggiunto alla mia raccolta di eventuali epitaffi da lasciare agli eredi: “Non fu mai quello di prima”. Roberto Barni ha tirato su Sergio, che a fine cena era un po’ giù e aveva gli occhi stanchi, dicendogli una rima di Michelangelo: “Gli occhi mie vaghi delle cose belle / e l’alma insieme della sua salute / non hanno altra virtute / c’ascenda al ciel, che mirar tutte quelle. / Dalle più alte stelle / discende uno splendore / che ‘l desir tira a quelle, / e qui si chiama amore. / Né altro ha il gentil core / che l’innamori e arda, e che ‘l consigli, / c’un volto che negli occhi lor somigli”. Ho commesso la leggerezza di dichiararlo dei più danteschi, e Roberto si è ribellato: “A Dante l’amore apre il mondo, a Michelangelo lo chiude”. Ho segnato anche questa, la aggiungo agli epitaffi di quei due grandi, uno che s’innamorò a nove anni di una, l’altro che fu innamorato infelice di tanti per novant’anni.

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