Il mercato del petrolio è stabile però il prezzo è molto voltatile (Foto Pixabay)

Cosa c'è dietro all'infinita altalena del petrolio

Salvatore Carollo

La produzione globale quotidiana continua ad aggiornare i massimi, ma intanto cala la capacità di raffinazione. Sarà il tallone d'Achille dell'energia

Il prezzo del petrolio ci ha abituato alle sue oscillazioni enormi e repentine, a fronte della stabilità del rapporto domanda/offerta. Gli analisti sono costretti a sforzi di fantasia per tentare di trovare giustificazioni credibili, contraddicendosi ogni volta che le tendenze si invertono. La differenza fra la domanda e l’offerta a livello mondiale, da oltre trenta anni, è praticamente impercettibile. Si tratta di un mercato assolutamente stabile, paradossalmente caratterizzato da un prezzo terribilmente instabile e volatile.

 

Per comprendere le ragioni di questa anomala contraddizione, occorre capire da un alto alcune dinamiche del mercato e dall’altro le sfide gigantesche che l’industria petrolifera deve affrontare. Si parla di “mercato petrolifero” come un sistema da cui scaturisce quello che chiamiamo prezzo del petrolio ed in cui si confronterebbero soggetti come l’Opec, la Russia, l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti, ecc. La realtà è molto più complessa. Il mercato fisico, ormai dal 1988, non genera più un suo prezzo, ma riesce solo a determinare influenze, emozioni sugli operatori del mercato finanziario del Brent, nel quale avvengono transazioni di contratti di carta, a cui non corrisponde alcuna consegna di barili fisici. Potrebbe essere descritto come il più grande “gioco di società” della storia dell’umanità, dove si muovono flussi monetari di migliaia di miliardi di dollari al giorno con spostamento di risorse finanziarie da una commodity all’altra nel giro di poche ore.

 

Quello che chiamiamo “prezzo del petrolio” è il risultato degli scambi in Borsa di questi contratti di carta. Le sue dinamiche non hanno spesso alcuna correlazione con quella dei mercati del petrolio fisico, reale. Per esempio, il rafforzamento del mercato dei metalli, determinando uno spostamento di massa finanziaria, può determinare la caduta del Brent, senza che ci sia stata alcuna variazione nel mercato petrolifero. E’ successo spesso. E’ anche successo che alcuni spostamenti finanziari sono avvenuti con manipolazioni dei mercati, in controtendenza rispetto agli eventi del mercato fisico. Alcune major petrolifere e istituzioni finanziarie sono state pesantemente multate dalle autorità di controllo. Il rischio che queste manipolazioni potessero ripetersi, ha finito con il rendere diffidenti i fondi di investimento, che fra il 2015 e il 2016, hanno disinvestito pesantemente dal mercato del Brent, causando la caduta del prezzo a 26 dollari/barile. Proprio mentre la domanda petrolifera mondiale registrava una crescita robusta e costante, fino a superare la soglia di 100 milioni di barili/giorno.

 

Lentamente, il prezzo è risalito, superando anche il valore di 80 dollari/barile, ma con continue forti oscillazioni. I fondi di investimento sono tornati a comprare i contratti di Brent, ma con la tendenza a scappare al primo segno di incertezza. Mordi e fuggi. Il livello della domanda a 100 milioni di b/g, costituisce, tuttavia, il nuovo macigno nell’universo del petrolio, una sfida per l’approvvigionamento energetico mondiale, almeno per due ragioni precise. Anzitutto, produrre tutti i giorni 100 milioni di b/g di petrolio greggio, implica un enorme sforzo finanziario e tecnologico, che non è assolutamente scontato.

 

Inoltre, trasformare 100 milioni di b/g di petrolio greggio nei prodotti finiti (benzine, gasolio, Jet Fuel) di qualità sempre più elevata, come richiesto dai mercati finali, con le infrastrutture industriali e logistiche di cui oggi disponiamo è quasi impossibile. Occorrerebbero investimenti in nuove raffinerie e nuove tecnologie di trasformazione, che le incertezze sia sull’andamento dei prezzi sia sugli scenari di sviluppo energetici mondiali, rendono difficilmente sostenibili per gli operatori. Esiste il rischio concreto di interruzione dei flussi di approvvigionamento energetico, soprattutto nel settore dei trasporti, prima che si compia la ipotizzata transizione energetica. Facciamo un esempio concreto.

 

Negli ultimi decenni, l’Italia ha visto proliferare una serie di  aeroporti  regionali, fino a raggiungere un numero di quaranta, con un traffico di 164 milioni di passeggeri e 1,5 milioni di voli. I consumi di  Jet  Fuel  in Italia nel 2017 sono stati circa 4,4 milioni di tonnellate. Il sistema di raffinazione nazionale ne ha prodotto soltanto 2,7 milioni di tonnellate. La differenza di 1,7 milioni di tonnellate è stata importata da Grecia, Spagna e Arabia Saudita. Negli anni Ottanta, l’Italia era un paese che esportava circa 2,7 milioni di tonnellate di  Jet  Fuel  verso l’Europa e verso i paesi del mediterraneo. La crisi della raffinazione, con le numerose chiusure di impianti, ha fatto diminuire la capacità di produrre questo combustibile e ci ha reso netti importatori. Se non si interviene, il rischio di chiusura di molti aeroporti sarà concreto.

 

La capacità di raffinazione è il vero tallone d’Achille del mondo dell’energia contemporaneo. Il sistema attuale, che giornalmente ci garantisce l’approvvigionamento energetico, è estremamente datato e fragile. E questo vale in modo particolare per gli Stati Uniti e l’Europa, dove il sistema di raffinazione è stato costruito essenzialmente fra gli anni Cinquanta e Settanta. Succede quindi che un uragano sulla Est Coast americana (Harvey) possa causare gravi problemi di approvvigionamento delle benzine e crisi del trasporto aereo, con ripercussioni in tutto il mondo industrializzato. A fronte di questi problemi strutturali, si è spesso cercato di depistare l’opinione pubblica addossando all’Opec l’eventuale scarsità di approvvigionamento. I paesi Opec producono greggio, materia prima da cui, in raffineria, si ottengono i prodotti finiti che vanno al consumo. La nostra crisi comincia in raffineria e si sviluppa nella logistica della distribuzione. L’Opec non c’entra proprio nulla.

 

In Europa di recente abbiamo visto due manifestazioni di piazza importanti, una, a Londra, contro la lentezza della transizione energetica che ancora ci obbliga ad usare combustibili fossili, l’altra a Parigi contro la carbon tax, che fa aumentare il prezzo di benzina e gasolio. Siamo intrappolati fra esigenze ambientaliste e la domanda di beni e prodotti indispensabile a garantire le attività economiche essenziali. Il passo in avanti per superare questa contraddizione, nel breve e medio termine, sta nel non nascondersi nell’ipotesi di un futuro tutto da costruire o ancora da inventare, ma nell’utilizzo delle tecnologie già esistenti per migliorare nettamente la qualità dei prodotti energetici che consumiamo.

 

L’integrazione fra le tecnologie di raffinazione del petrolio con quelle di sintesi del gas naturale (Gtl) possono già oggi fornire risposte positive. Occorrono investimenti ma più ancora politiche serie e concrete da parte dei governi dei paesi industrializzati. Si tratta di impegni forti e onerosi che implicano coraggio e responsabilità politica. Tutti questi problemi che riguardano l’industria energetica e petrolifera del mondo non sono resi visibili dalla evoluzione del prezzo del petrolio. La dinamica delle transazioni finanziarie nel mercato del Brent, determinanti nella fissazione delle quotazioni giornaliere del petrolio, risponde a logiche diverse, è mossa dalle aspettative degli operatori finanziari sulla base dei rumor prevalenti. Qualunque analisi di fondo dei processi, rischierebbe di apparire autocritica e destabilizzante e quindi non ha diritto di cittadinanza.

 

Negli ultimi due anni, a fronte della poderosa crescita della domanda, si è capito che il prezzo del petrolio non poteva navigare al di sotto di 60-70 dollari/barile. Anche i fondi di investimento lo hanno percepito e sono tornati a comprare barili di carta, ma pronti a scappare al più piccolo segnale di debolezza o di fronte a messaggi politici diffusi ad arte (richiesta di Donald Trump all’Opec di produrre di più per raffreddare i prezzi). La domanda ha una sua evoluzione stagionale. Ogni prodotto petrolifero ha le sue specifiche stagionalità. La benzina è più un prodotto estivo, mentre il gasolio è più invernale. Al di là di queste variazioni fisiologiche il livello della domanda, è sempre stato perfettamente allineato all’offerta.

 

Non si conoscono casi di raffinatori, che volendo comprare, pagandolo, un carico di greggio non l’hanno ottenuto e non si hanno evidenze del caso opposto. Il prezzo dovrebbe dare evidenza di questa stabilità. E invece l’abbiamo visto oscillare da 50 a 150 a 37 a 130 a 26 per tornare a 80 dollari/barile. L’oscillazione e l’incertezza del prezzo del petrolio misura solo la fragilità della politica energetica dei governi dei paesi industrializzati e la mancanza di “controllo” globale dei mercati finanziari. L’Opec siamo noi. 

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