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Il petrolio sulle montagne russe. Cosa succede nel 2019

Gabriele Moccia

Non c'è solo la Russia che alleata all'Opec cambia gli equilibri tra i paesi produttori. Le incertezze sull'economia globale lasciano intravedere un nuovo calvario per l'industria dell'oro nero

Il 2019 rischia di essere un nuovo calvario per l’industria mondiale del petrolio. Il 2018 si è chiuso con l’ennesimo tonfo dei prezzi ed è servita a poco la decisione del principale cartello dei paesi produttori di greggio – l’Opec – di tagliare di 1,2 milioni di barili al giorno la produzione: da ottobre il prezzo del greggio è sceso del 40 per cento per raggiungere minimi che non si vedevano dall’estate 2017. Mentre per il nuovo anno alcuni analisti agitano lo spettro di uno scenario ribassista ancora più vorticoso con i prezzi del greggio che potrebbero toccare i 30 dollari al barile, vediamo le prospettive dei principali ‘signori’ del petrolio.

  

Partiamo dal cartello di Vienna, l’Opec, che – seppur orfano di un membro storico come il Qatar – ha tentato, negli ultimi mesi del 2018, di raddrizzare le sorti del mercato dell’oro nero annunciando la nascita di una collaborazione di lungo termine con la Russia per cercare di stabilizzare la produzione. I Paesi del cartello e Mosca si ritroveranno il prossimo aprile in una nuova conferenza che, oltre a verificare le sorti dell’accordo sul taglio della produzione, dovrà sancire la nascita di questo nuovo assetto. Il ministro dell’energia degli Emirati Arabi, Suhail al Mazrouei, è stato molto chiaro: “L’Opec non sarà più un gruppo da 30 milioni di barili, assieme ai Paesi non Opec, inclusa la Russia, ora parliamo di 50 milioni di barili, metà della produzione mondiale”. Gli Stati Uniti continuano ad esercitare il proprio nuovo ruolo di dominanza energetica. Con un volume totale di 15,4 milioni di barili al giorno, quasi l'equivalente della produzione di Arabia Saudita, Iraq ed Ecuador messe insieme, nel 2018 gli Usa hanno registrato un record storico di produzione (+16 per cento), consolidando la prima posizione, già acquisita da qualche anno, tra i Paesi produttori di petrolio. L'incremento americano, pari a 2,1 milioni di barili al giorno, copre quasi per intero l'incremento della produzione mondiale (2,3 milioni di barili). Rispetto al 2010, quindi in soli otto anni, con lo sviluppo dello shale oil gli Usa hanno praticamente raddoppiato i loro volumi (+ 97 per cento) a fronte del +11 per cento della Russia e dei Paesi Opec. Sono numeri che il presidente americano, Donald Trump, cercherà di far pesare a livello geopolitico per mettere i bastoni tra le ruote alle quote di mercato storicamente detenute dagli altri attori petroliferi, Russia in primis.

    

Mosca ha chiuso il 2018 con un calo delle esportazioni di petrolio pari a circa 5 milioni di tonnellate, come ha fatto sapere il presidente della società di trasporti petroliferi (Transeft), Nicolaj Tokarev, e da gennaio, il Cremlino si appresta ad autorizzare un ulteriore taglio alla produzione di 60 mila barili al giorno. Eppure, secondo un recente report della stampa tedesca, la Russia ha la forza per resistere a un forte calo dei prezzi del petrolio. Sulla base dell’ultimo rapporto della Banca mondiale sull’economia russa, per i giornalisti del “Deutsche Wirtschafts” le importanti riserve valutarie, oltre a un ridotto debito pubblico e un indice di copertura delle importazioni resiliente, dovrebbero assicurare alla Russia una posizione stabile. Secondo le stime della Banca mondiale, nel 2019 si prevede un leggero rallentamento della crescita economica della Russia, nonostante la crescita degli investimenti in progetti infrastrutturali, mentre nel 2020 l’istituto di Washington si aspetta che la crescita del pil della Russia aumenti fino all’1,8 per cento. C’è poi l’Arabia Saudita. Il gigante del petrolio nel 2019 si appresta ad aumentare la spesa pubblica di oltre il 7 per cento per intercettare gli ambiziosi obiettivi dei progetti di riforma del principe Bin Salman, nonostante ulteriori tagli alla produzione petrolifera nazionale – il ministro dell’energia saudita Khalid Falih ha parlato di una perdita di 500 mila barili al giorno a partire da gennaio – e con la quotazione del colosso Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo, ancora al palo. Il principale rivale di Riad, l’Iran degli ayatollah guarda invece al 2019 come occasione per rispondere alla minaccia delle sanzioni americane aumentando il proprio peso sul mercato petrolifero. Prima dell’avvio del round sanzionatorio le entrate derivanti dalle esportazioni petrolifere iraniane, per il periodo marzo-ottobre 2017, hanno registrato un aumento del 55 per cento. Per usare le parole del presidente iraniano, Hassan Rohani: “Se l'obiettivo degli americani era azzerare le nostre esportazioni di petrolio voglio dire chiaramente che le nostre esportazioni di petrolio sono migliorate gradualmente da inizio novembre”. Teheran conta molto sulla sponda europea, con il veicolo finanziario speciale elaborato dalla diplomazia di Bruxelles che, come affermato dall’alto rappresentante per la politica estera Ue Federica Mogherini, dovrebbe essere pronto per gli inizi del 2019, con l’obiettivo facilitare i pagamenti nei flussi delle esportazioni (compreso il petrolio) e le importazioni.

     

Nonostante le varie posizioni in campo, la più grande fonte di incertezza proviene però dalle crepe nell’economia globale. Il rafforzamento dei tassi di interesse, la volatilità dei mercati finanziarli, le fluttuazioni valutarie e una crescita lenta, potrebbero rappresentare grossi ostacoli nella crescita del mercato petrolifero. Per non parlare della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina che – ora apparentemente in stasi – potrebbe riaccendersi nei primi mesi del 2019. Per i grandi titani del petrolio, per gli Stati che usano l’oro nero come principale arma geopolitica, si prospetta insomma un altro anno sulle montagne russe.