Letture

L'impresa e il profitto motori dell'innovazione: dall'antica Roma a Meta

Giacomo Giossi

Il progresso e il bene comune raccontati in un saggio di William Magnuson. Nel suo ultimo libro l'autore scava all'interno del sistema socio economico, tracciando una storia di come le società siano riuscite a evolversi e ad innovare

Come il perseguimento del profitto nelle grandi aziende influenza e determina la crescita di una società? Tema ampio e complesso che William Magnuson sviluppa e articola in un libro dal carattere divulgativo, ma estremamente colto come Profitto (Il Saggiatore, 400 pp., 35 euro) per la traduzione di Fabio Galimberti. La domanda che si pone Magnuson, docente di Diritto d’impresa alla Texas A&M School of Law contiene già una risposta per certi versi autoevidente: le grandi imprese rappresentano infatti forse l’istituzione più avanzata che le società umane siano mai state in grado di concepire per sviluppare attraverso un lavoro collettivo visioni e prodotti innovativi.
 

Cuore di questo sistema restano sicuramente gli Stati Uniti che anche attraverso il disegno storico e romantico del sogno americano hanno avuto – e hanno ancora oggi – il primato di generare imprese capaci prima di ogni altra cosa d’includere e coinvolgere per un obiettivo comune. Produrre innovazione significa infatti dare corpo a una società più aperta e coesa e quindi in grado di rispondere al meglio alle esigenze dei suoi cittadini. L’excursus che propone Magnuson ha come punto di partenza l’antica Roma per poi snodarsi nei secoli fino ad arrivare all’ultima creatura di Mark Zuckerberg, ovvero Meta. Magnuson avanza con la sua tesi – a tratti riducendo forse un po’ troppo rapidamente la storia a un copione dato – mostrando come sia insito nella ricerca del profitto un necessario sviluppo sociale, a tratti diretto, a tratti indiretto. Tuttavia non manca di segnalare come questo sistema viva spesso di slittamenti in grado di annullare quelle che dovrebbero essere le caratteristiche virtuose essenziali a una grande azienda. La vera domanda  che attraversa il volume, infatti, riguarda proprio la definizione di bene comune: quali sono i suoi reali confini? Ma soprattutto, come è possibile individuarlo all’interno della linea del tempo? Considerata l’abilità delle grandi aziende di “generare” futuro, non è sempre chiaro come dare una risposta certa.
 

Il futuro è dietro l’angolo, ma cosa sia bene e cosa sia male non è mai così esattamente chiaro. Certo, ci sono disuguaglianze evidenti, così come ci sono imprese che sembrano danneggiare più che arricchire la società. Interviene a questo punto un possibile sguardo politico che vada oltre la dinamica economica e che sappia predisporre una serie di vincoli a protezione della società da una forma evidentemente virtuosa d’impresa, ma il cui funzionamento potrebbe rivelarsi quanto prima un bug letale. Profitto è sicuramente una lettura affascinante e coinvolgente e in buona parte efficace, anche per la sua capacità di organizzare il contenuto e metterlo in linea rispetto a una prospettiva storica che non lasci prevalere solo l’aspetto economico. Tuttavia  l’aspetto economico si rende difficilmente riducibile proprio per la sua insita complessità, e non di rado all’autore non resta che affidarsi a una serie di ipotesi  classiche, per non dire usurate, che provano a dare una lettura bivalente di un capitalismo che può essere buono o cattivo a seconda degli interpreti. In verità l’impressione è che non si voglia affrontare l’organicità delle imprese quali veri e propri oggetti (o meglio soggetti) complessi dentro ai quali si intrecciano ambizioni individuali e necessità collettive, là dove ogni avanzamento e innovazione rischiano, al di là delle stesse intenzioni dell’impresa, di tramutarsi in un pericoloso baratro. Pericolo però obbligatorio per perseguire quel movimento necessario – seppur sempre facile all’inciampo – a raggiungere un nuovo e migliore equilibrio.

Di più su questi argomenti: