La libertà che guida il popolo - Eugene Delacroix

Letture

Non uno, ma tanti liberalismi. E Michael Freeden li ha mappati e classificati

Carlo Marsonet

L'autore, nell'analisi contenuta in "Liberalismo" (Rubbettino), lega l'ontologia del pensiero alla sua morfologia, arrivando a elencare i cinque "fogli" o strati temporali che compongono l'ideologia liberale

Il liberalismo, ha scritto il sociologo francese Raymond Boudon, è “la tradizione di pensiero meno escatologica che vi possa essere”. È chiaro come, contrariamente a ideologie totalizzanti o religioni secolari, non prometta alcun mondo purificato e perfetto. Pertanto, risulta assai meno seducente, almeno di primo acchito, rispetto a visioni socio-politiche onnicomprensive. Non vi sono mete ultime, di natura collettivistica, sull’altare delle quali sacrificare gli individui: sono quest’ultimi, nella loro unica e irriducibile dignità, che non possono essere lesi da nessuno e per nessuna ragione. Il fine, insomma, è l’individuo e la sua libertà.
 

È certo però come l’idea liberale possa essere declinata in molti modi. È forse addirittura assurdo parlare di liberalismo, anziché di liberalismi: è possibile porre nella medesima tradizione Friedrich von Hayek, John Rawls e Amartya Sen? E che dire del modo assai differente con il quale si usa il termine “liberale” nei vari paesi? Perentoriamente Michael Freeden, in “Liberalismo” (Rubbettino), afferma che non esiste “una cosa unica e univoca chiamata liberalismo”. Ciò che va sottolineato del volume è tuttavia l’approccio impiegato per lo studio. Maurizio Serio, il curatore dell’edizione italiana – la versione inglese è uscita qualche anno fa – afferma, nell’introduzione, come il teorico politico emerito a Oxford tenga insieme l’idea liberale e la sua pratica attraverso un’analisi del concetto e dei suoi diversi significati assunti durante le epoche storiche. Detto altrimenti, Freeden prova a legare l’ontologia del liberalismo con la sua morfologia, creando una mappatura dei liberalismi.
 

Via via che l’idea liberale si è sviluppata storicamente, essa è infatti in parte mutata. Al suo centro, per Freeden, l’ideologia liberale è costituita da sette concetti: libertà, razionalità, individualità, progresso, socialità, interesse generale, potere limitato e responsabile. E, tuttavia, tali concetti si sono incastrati in modo mutevole durante il tempo, andando a determinare varianti empiriche che hanno enfatizzato uno o più dei sette concetti del nucleo liberale, magari attenuando l’importanza di altri. Così, l’autore enuclea i cinque “fogli” o strati temporali che compongono l’ideologia liberale: il primo strato concepito come teoria del potere limitato portato avanti da John Locke; il secondo come enfasi posta sul mercato e il libero scambio da parte di Adam Smith e Richard Cobden; il terzo, che Freeden considera la svolta del liberalismo, in quanto ampliamento delle capacità umane, così come inteso da John S. Mill; il quarto come liberalismo sociale portato avanti da Thomas H. Green e Leonard T. Hobhouse; il quinto, infine, come la contemporanea identity politics.
 

Fin qui, l’analisi scorre in via tendenzialmente descrittiva. Eppure, come nota Serio, con il procedere della trattazione è chiara non solo la preferenza (legittima) di Freeden per il new liberalism del quarto strato, ma pure la sua ostilità nei confronti di alcune varianti liberali – si veda la trattazione del misterioso “neoliberalismo”. Risulta estremamente discutibile, poi, annoverare tra i “grandi liberali” solo gli esponenti del liberalismo sociale inglese. In tal modo, la famiglia liberale diventa, in buona sostanza, nient’altro che il monopolio di una corrente perlopiù non priva (eufemismo) di insite criticità liberali. Con l’enfasi posta sulla libertà positiva, a scapito di quella negativa, diceva Isaiah Berlin, si corre il rischio di giustificare le peggiori azioni oppressive: dal paternalismo alla tirannide è un battito d’ali.

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