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Tutti gli attriti petroliferi tra America e Arabia Saudita

Gabriele Moccia

Non solo Khashoggi. Da cosa derivano le divergenze tra Trump e Bin Salman

Roma. Il presidente americano Donald Trump ha detto che non vede ragioni per bloccare gli investimenti della Arabia Saudita negli Stati Uniti nonostante le preoccupazioni per la morte del giornalista giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi. I sauditi sposterebbero soltanto i soldi in Cina e in Russia, sostiene Trump. Tuttavia gli attriti tra la Casa Bianca e il Regno Saudita non accennano a diminuire. Alla vigilia dell’avvio della fase più dura delle sanzioni contro l’Iran, quelle che colpiscono direttamente il suo sistema produttivo energetico, l’asse tra Washington e Riad, nato proprio contenere il regime degli ayatollah, si sta lentamente sfaldando sulla base di interessi sempre più divergenti.    

 

In primo luogo c’è la partita del petrolio. Solo qualche giorno fa, il presidente americano Donald Trump ha chiamato il principe riformista saudita, Bin Salman, per provare a ricucire lo strappo occorso del mese scorso in occasione dell’ultimo vertice dell’Opec, il principale cartello dei paesi produttori di greggio. Ma sugli sforzi da compiere per mantenere stabile il mercato petrolifero i punti di vista non potrebbero essere più divergenti. Riad punta a limitare la produzione petrolifera per spingere in alto il prezzo del greggio e consolidare le rendite acquisite nel corso degli anni dall’Opec. Al contrario, la strategia energetica di Trump per sostenere l’industria nazionale delle trivelle è opposta, portare i prezzi sempre più in basso e sostenere la nuova espansione dello shale gas e del tight oil americano nel mercato europeo e asiatico.

 

In questo senso, l'Arabia Saudita è sotto pressione da parte degli Stati Uniti che chiedono un aumento della produzione per ridurre il prezzo del petrolio che questa settimana ha raggiunto la cifra record di 85 dollari al barile, segnando il massimo negli ultimi quattro anni. Durante la settimana russa dell'Energia in corso a Mosca, il ministro saudita dell’energia, Al Falih, ha sottolineato che in vista dell'entrata in vigore delle sanzioni Usa contro il settore petrolifero iraniano il prossimo 4 novembre, Riad alzerà leggermente la produzione rispetto ad ottobre. Il ministro ha tuttavia sottolineato che l'aumento dipenderà comunque dalla domanda globale. L’orbita russa è dunque sempre più attraente per il Regno, lo testimonia la presenza di Al Falih ma anche le notizie relative ad un nuovo accordo tra i due Stati per armonizzare la propria produzione petrolifera, aggredendo quella americana. Come ha sostenuto di recente il ceo della British Petroleum, Bob Dudley, a margine della Oil & Money Conference di Londra, “penso che l'Arabia Saudita abbia capacità che possono portare sul mercato. Ma dall'altra parte ci sono circostanze molto imprevedibili in Venezuela e, naturalmente, con le sanzioni iraniane, ha osservato Dudley, commentando le attuali forze di mercato che guidano i prezzi del petrolio”.      

 

Dentro l'Opec, Arabia Saudita e la Libia hanno aumentato la produzione lo scorso mese rispettivamente di 108 mila e 103 mila barili al giorno, più che compensando il declino di 150 mila barili dall'Iran. Proprio per guidare la domanda globale i sauditi stanno guardando con crescente interesse al mercato asiatico, al Pakistan e alle opportunità offerte dai progetti cinesi nei paesi del sud est asiatico, nel tentativo di espandere i propri orizzonti economici e diversificare i suoi rapporti commerciali e industriali. L'aumento degli investimenti sauditi in Pakistan, storico alleato di Riad ma che negli anni ha rafforzato le relazioni con l'Iran, rischia di aumentare le frizioni con altri partner, in particolare l'India, ora importante alleato proprio di Washington. Al mondo finanziario statunitense non sono, poi, poi piaciute le parole pronunciate di recente dal principe Salman, che, in un’intervista a Bloomberg, ha di fatto rinviato la quotazione del colosso energetico saudita, Saudi Aramco, al 2021, mentre gli appetiti di Wall Street, su un’operazione che vale 2 mila miliardi di dollari, si erano fatti sempre più insistenti.