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Se i sauditi fanno a pezzi i giornalisti, cosa dice l'amico Trump?

Daniele Raineri

Un editorialista del Washington Post forse ucciso dentro un consolato saudita, a rischio l’alleanza pilastro in medio oriente. Cosa si sa della sparizione di Khashoggi

New York. La sparizione del giornalista Jamal Khashoggi potrebbe avere conseguenze enormi per le relazioni tra il regno saudita e il resto del mondo. Khashoggi, saudita che si era autoesiliato in America per poter scrivere in libertà e che era pubblicato dal Washington Post – che pubblicava i suoi editoriali in inglese e in arabo – martedì scorso è entrato nel consolato saudita a Istanbul. C’era già stato una settimana prima per chiedere un documento che prova che lui è divorziato e quindi può legalmente sposarsi di nuovo con la fidanzata turca Hatice Cengiz e gli era stato dato un appuntamento. Si è presentato accompagnato dalla fidanzata, che lo ha aspettato fuori, ma non è più uscito. Due fonti della polizia turca hanno detto al New York Times, al Washington Post e al giornale turco Sabah (filogovernativo) che una squadra di quindici specialisti sauditi è arrivata al consolato lo stesso giorno dell’appuntamento. Due ore dopo l’ingresso di Khashoggi, sei vetture hanno lasciato l’edificio e fra quelle c’era un furgone nero con i vetri oscurati e targa diplomatica – quindi non poteva essere perquisito. Le fonti sospettano che Khashoggi sia stato ucciso, fatto a pezzi e portato via dentro contenitori a bordo del furgone. Ieri il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha lasciato ancora uno spiraglio ufficiale al governo saudita e ha detto che “deve dimostrare che Khashoggi sia uscito”. Ma se fosse vero quello che dicono le fonti anonime turche e se spuntassero prove – per esempio i quindici sauditi e i veicoli fossero identificati grazie a immagini video – allora ci sarebbe (ci dovrebbe essere) un terremoto.

 

La relazione stretta con i sauditi finora è l’unico grande successo all’estero dell’Amministrazione Trump (la questione coreana è ancora molto ambigua). Il fido Jared Kushner, genero del presidente americano, è già stato almeno tre volte nella capitale saudita Riad e ha passato notti intere a confidarsi con Mohammed bin Salman, l’erede al trono che ha deciso di riformare il regno con metodi anche brutali. Il primo viaggio di Trump all’estero è stato proprio in Arabia Saudita, dove è stato accolto con celebrazioni trionfali. Si può dire che l’alleanza tra Washington e la casa dei Saud – la famiglia reale di cui Bin Salman è il rampollo – è uno dei punti fermi del medio oriente e si contrappone all’altro punto fermo, l’Iran e tutti i suoi affiliati (Khashoggi diffidava di questa intesa, lo aveva scritto poco più di un anno fa). Bin Salman ha intrapreso una serie di riforme interessanti – ha accettato un allentamento delle regole che vietavano alle donne di guidare o di andare allo stadio, ha fatto riaprire i cinema, ha zittito i predicatori estremisti – ma ha anche ordinato azioni brutali: l’imprigionamento di dissidenti, la campagna militare in Yemen, il sequestro del primo ministro libanese Saad Hariri nel novembre 2017. Questo suo lato feroce era come lasciato in sospeso nel caos corrente del medio oriente. Ma ora la vittima è un editorialista del Washington Post, che tra l’altro faceva critiche tiepide. Se Bin Salman ha ordinato di tendergli una trappola dentro il consolato di Istanbul per ucciderlo e farlo a pezzi, qualsiasi relazione con lui diventerà (dovrebbe diventare) impossibile. Come si fa a criticare il presidente siriano Bashar el Assad perché incarcera e uccide i dissidenti, o l’Iran per la stessa cosa, e poi mantenere un’alleanza strategica con i sauditi in queste condizioni?

 

L’operazione russa per eliminare un disertore a Londra con un’arma chimica, il fallito attentato dell’intelligence iraniana contro il congresso del gruppo Mek a Parigi, l’arresto del capo dell’Interpol in Cina, questa sospetta esecuzione di un giornalista da parte dei sauditi in Turchia. Localismi sempre più aggressivi approfittano dell’assenza del vecchio ordine mondiale, che nessuno garantisce più.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)