Come agire dopo

Tra i paesi arabi, un fronte del silenzio sostiene l'estirpazione di Hamas

Andrea Graziosi

Il gruppo terroristico ha fatto male i suoi calcoli. Le nuove alleanze liberali che servono per evitare altre guerre

La guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, il conflitto in Nagorno-Karabakh e ora quello di Gaza sono i casi più evidenti dell’aumento dei conflitti tra stati o internazionalizzati a seguito dell’intervento di uno stato estero verificatosi grosso modo a partire dal 2008. È difficile individuare con certezza le cause di questo aumento, ma colpisce la coincidenza con lo scoppio della crisi finanziaria che confermò la debolezza relativa dell’occidente nato nel 1945, dopo il fallimento della sua ultima “vera” presidenza, quella di Bush junior. Il nuovo presidente, Barack Obama, fece presto capire che il suo obiettivo era riformare gli Stati Uniti e lasciò trasparire persino fastidio per la politica estera. Seguirono errori come quello di non punire Bashar el Assad nel 2013 per l’uso di gas sarin, come pure Obama si era impegnato a fare, e soprattutto la decisione – probabilmente la più gravida di conseguenze – di guardare alla Cina come a un avversario piuttosto che come a un partner, magari ancora minore e al quale chiedere dei cambiamenti (che la Cina avesse profittato dell’ingenuità statunitense ed europea nei decenni precedenti è fuor di dubbio).

Questa politica fu poi seguita da Donald Trump e dal primo Joe Biden che, come ci ricorda l’affare dei sottomarini australiani, ebbe come priorità la costruzione di un’alleanza anticinese nel Pacifico: per entrambi la Cina era un avversario strategico piuttosto che una superpotenza cresciuta anche grazie alle aperture occidentali e il cui ruolo andava quindi riconosciuto, magari strappando delle correzioni di rotta come avevano fatto Nixon e Kissinger con l’Unione sovietica di Breznev. Da allora il mondo vive una situazione di più intensa instabilità, con due superpotenze che non si riconoscono, e una terza, l’India, in emersione veloce, ancorché complicata da seri problemi interni legati alla sua varietà linguistica e religiosa. Chiunque abbia delle rivendicazioni da portare avanti sa quindi che c’è una sponda cui guardare, e un retroterra pronto a sostenerlo, almeno fino a quando ciò rientra nell’“interesse nazionale” del possibile sostenitore (cosa che non mancherà di produrre cocenti delusioni). 

La Russia avrebbe quindi probabilmente invaso comunque l’Ucraina, e Hamas desidera senza dubbio da sempre sterminare quanti più ebrei possibili, ma entrambi hanno potuto portare avanti le loro politiche con più agio sapendo che c’era una retrovia su cui contare, e lo stesso può dirsi dell’Iran o della Corea del nord. Nel mondo risuona inoltre di nuovo il richiamo di modelli diversi, il che favorisce aggressioni e conflitti, ma anche aperture e possibili cambi di fronte: pensiamo al caso di diversi stati africani, passati da regimi filofrancesi a regimi filorussi, ma anche alla scelta europea dell’Ucraina, a quanto sta succedendo o potrebbe succedere in diversi paesi arabi e anche in Asia, da Taiwan al Vietnam.

È di questa situazione che hanno profittato Vladimir Putin e i dirigenti di Hamas. In particolare l’Iran, che rifornisce Mosca di armi e droni e guadagna così le grazie di Pechino, e Hamas che sa di poter contare su Mosca, e quindi sul blocco di cui essa fa parte, sanno di non essere più soli e di avere quindi più margini di azione. A spingere Hamas ad agire, e l’Iran a sostenerlo, è stato il timore che sempre più stati arabi si unissero al processo di riconoscimento di Israele come soggetto del medio oriente, un processo facilitato dalla contemporanea “medio-orientalizzazione” di Israele a opera di Benjamin Netanyahu e dei suoi governi. Dietro c’è un blocco composto da molti dei discendenti degli ebrei espulsi dai paesi arabi dopo il 1948, dalle frange religiose e nazionaliste più estreme, e da buona parte della comunità “russa” arrivata durante e dopo il collasso dell’Urss, dopo essere stata sottoposta per anni alla primitiva retorica militarizzata e nazionalista sovietica.

La decisione di agire e il modo in cui ha agito il 7 ottobre non lascia dubbi sul fatto che per Hamas il fine resta la distruzione di Israele e lo sterminio degli ebrei. Ma gli eventi successivi dimostrano che le tendenze in atto avevano radici profonde e che forse Hamas ha fatto male i suoi calcoli. In primo luogo, in quanto costola dei Fratelli musulmani, sunniti, ha presto dovuto fare i conti con la labilità del sostegno di protettori sciiti che sono disposti a sorreggerlo solo fin dove arriva la loro convenienza. Lo indica, malgrado la retorica bellica di cui è impregnato, il recente discorso del leader di Hezbollah: un allargamento della guerra non è certo escluso, ma la decisione, se sarà presa, lo sarà in base ad altre considerazioni.

Soprattutto, come ha osservato di recente anche l’Economist, gran parte dei paesi arabi, malgrado qualche dichiarazione solenne e le grandi manifestazioni, sembrano aver offerto a Israele una specie di implicita luce verde all’estirpazione di Hamas da Gaza. Lo dimostra il comportamento egiziano (ricordiamo che Abdel Fattah al Sisi è giunto al potere con un colpo di stato contro i Fratelli musulmani che ha duramente represso, e di cui Hamas è un braccio operativo), quello giordano (Amman ha chiesto la protezione militare statunitense), i significativi mezzi silenzi di molti paesi del Golfo, e persino la relativa tranquillità, anche se carica di tensione, di una Cisgiordania pur sottoposta a una dura e iniqua occupazione israeliana. Naturalmente, per rimediare ai suoi errori (fu Ariel Sharon a consegnare Gaza a Hamas nel 2005, illudendosi di nutrire lo scontro interno ai palestinesi), Israele è chiamata a fare un lavoro sporco che tutti condannano, ma di cui molti, se fosse portato a termine in tempi ragionevoli, sarebbero soddisfatti. Una situazione che indica anche i limiti e l’ipocrisia del moralismo in politica estera, limiti di cui occorre essere coscienti senza per questo rinunciare ai propri princìpi morali e politici, ma capendo che questi ultimi possono talvolta essere meglio perseguiti con una visione più realistica (al Sisi, per esempio, non è, soprattutto comparativamente, il mostro che molti hanno descritto). 

Nella battaglia contro Hamas, che ha sicuramente ricadute terribili in termini di sofferenza umana e che procede grazie a questo implicito via libera, l’Idf ha già riportato alcune vittorie. Penso in primo luogo agli 800 mila-un milione abitanti di Gaza che hanno accolto l’invito a trasferirsi nella parte meridionale della Striscia. È probabile che molti di essi lo abbiano fatto per timore dei bombardamenti israeliani, così come è probabile che tra le 300-400 mila persone rimaste a Gaza nord molte lo abbiano fatto per timore delle rappresaglie di Hamas. Ma il dato collima con quel che sappiamo sugli orientamenti della popolazione della Striscia prima del 7 ottobre: la grande maggioranza dei suoi abitanti si dichiarava a favore di un passaggio all’Anp e la metà sosteneva un accordo con Israele. 

La città di Gaza è ora circondata, e vi si svolge una guerra spietata alla ricerca dei sistemi di areazione che permettono alle strutture operative, militari e politiche di Hamas di vivere nei chilometri di tunnel e bunker costruiti nel sottosuolo. Sembra possibile supporre che se l’Idf riuscirà a portare a termine l’operazione in tempi brevi, il fronte del silenzio che la sostiene reggerà, e molti paesi saranno felici del suo successo. Quest’ultimo è ovviamente lungi dall’essere scontato. Ma mentre un fallimento aprirebbe scenari imprevedibili, un successo aprirebbe invece la partita di un dopo Hamas che viene già discusso in molte capitali arabe, a Tel Aviv, a Washington e, si spera, anche a Bruxelles e nelle capitali europee. 

Al di là del problema di chi dovrà amministrare Gaza e i suoi abitanti, e garantire la loro sicurezza, la questione cruciale diventerà allora il destino di Netanyahu e del regime israeliano di occupazione e segregazione in Cisgiordania. Solo la sua scomparsa e lo sgombero, anche con la forza, di colonie fondate da militanti la cui ideologia basata sull’unione tra religione, sangue e suolo semina paura, potrebbero aprire le porte a un futuro migliore. La soluzione due popoli-due stati, che non è certo quella ideale (gli “stati del popolo” hanno la tendenza ad acquisire caratteri mostruosi), lo diverrebbe allora almeno sul breve-medio periodo.

Tornando alle altre guerre, in quella ucraina, che nasce dalla scelta filoeuropea della sua popolazione, l’Unione europea può giocare un ruolo fondamentale, per esempio accelerando al massimo l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione e offrendo a Kyiv insieme agli Stati Uniti aiuti economici e garanzie politiche e militari tali da aiutare ad aprire le porte a un armistizio. Senza concedere nulla a Putin in linea di principio, esso potrebbe congelare la situazione in attesa della sua scomparsa, suggellando la doppia e inattesa vittoria dell’Ucraina nella sua guerra di indipendenza, prima contro l’esercito russo nel 2022 e poi contro la Wagner l’anno successivo. 

La cosa decisiva resta però chiudere il periodo di instabilità aperto dal mancato riconoscimento della Cina. Questo dipende naturalmente in primo luogo dalle scelte della Cina ma anche degli Stati Uniti, che si spera ritrovino il coraggio e la saggezza che nei primi anni Settanta del Novecento li portarono a riconoscere un’Unione sovietica certo non migliore della Cina di oggi. Ciò permise la fine della guerra in Vietnam e, dopo la piccola Guerra fredda dei primi anni Ottanta, la gestione pacifica della dissoluzione del blocco socialista, grandemente facilitata dal riconoscimento dell’Urss inaspettatamente garantito prima dal secondo Reagan e poi da Bush senior. Ma una soluzione del genere può giovarsi anche delle idee e delle proposte dell’Unione europea, e di suoi membri importanti come l’Italia. Lo stesso vale per le nuove alleanze politiche, economiche e militari globali dei paesi liberaldemocratici, di cui si avverte sempre più la necessità in un mondo che non è più gestibile con documenti, idee e organizzazioni nate 80 anni fa nel e per l’Atlantico settentrionale.

Se si vuole c’è quindi molto da fare, anche se non è certo detto che le cose vadano bene. Esse potrebbero anzi andare anche molto male, come probabilmente accadrebbe in caso di una vittoria di Trump nel 2024 (ma il futuro è per fortuna spesso imprevedibile). Delle miserie nostrane, prima dei lodatori di Putin, e poi di quelli di Hamas (due categorie in parte ma non totalmente coincidenti), il Foglio ha spesso ben detto. Noto solo che vi sono anche qui motivi di ottimismo, malgrado comprensibili scoramenti, e quindi margini per fare. Sì in qualche università si inneggia a Hamas, ma non è nulla rispetto ai cortei che esaltavano la lotta armata e il terrorismo dei gruppi palestinesi nei primi anni Settanta. E se nei cortei di oggi sfilano molti giovani di origine maghrebina o fede islamica, essi rappresentano solo una piccola frazione dei 2,7 milioni di musulmani che vivono in Italia e che esistono. Anche con loro sarebbe quindi importante seguire politiche di riconoscimento reciproco, basate sui valori della nostra Costituzione, come talvolta si è fatto ma in maniera insufficiente e tutto sommato marginale.

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