Muhammad Safdar Awan - Ansa

Terrorismo

Da Karachi a Islamabad: la rete che sostiene Hamas in Pakistan

Francesca Marino

Il capitano Muhammad Safdar Awan, genero dell'ex premier pakistano Nawaz Sharif, ribadisce il sostegno alla Palestina e conferma come il paese non riconosca, storicamente, Israele e il suo diritto a esistere

Preparatevi alla jihad! Oggi i palestinesi ci guardano, diciamo ai musulmani di Gaza che siamo con loro. Siamo con i musulmani di Gaza, siamo con i palestinesi oppressi. La bomba atomica del Pakistan non è soltanto per questo paese, è la bomba di tutti i musulmani”. Parola del capitano Muhammad Safdar Awan, genero dell’ex premier pachistano Nawaz Sharif ritornato di recente in Pakistan tra folle osannanti e, per inciso, sventolando una bandiera palestinese. L’eroico capitano, che mai ha combattuto una guerra in vita sua, ha pronunciato queste inquietanti parole a Peshawar, durante una manifestazione pro Palestina, riassumendo bene gli umori della folla. Sempre a Peshawar Khaled Meshaal, che guida le attività della diaspora di Hamas, ha arringato le folle in video a una massiccia protesta ospitata dalla Jamiat-e-Ulema Islam-Fazl (JUI-F), un partito che ha fatto parte dell’ultima coalizione di governo del Pakistan: quella, tanto per capirci, guidata da Imran Khan. Il capo del JUI-F, Maulana Fazlur Rehman, che ha definito l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre un “successo storico”, ha giurato di inviare aiuti a Hamas e ha ribadito che “siamo pronti a unirci alla lotta”. E a Karachi, durante un raduno domenicale tenuto dalla Jamaat-e-Islami (JI), cioè uno dei maggiori partiti religiosi pachistani, il leader Siraj-ul-Haq ha avvertito che “assedieremo l’ambasciata statunitense a Islamabad” se il presidente americano Joe Biden continuerà a sostenere Israele.

L’assalto all’ambasciata è stato impedito, strano ma vero, dalle forze dell’ordine pachistane, ma non certo per amore di pace e democrazia. L’economia è allo stremo, al Pakistan servono i soldi del Fmi e, soprattutto, gli serve rimanere fuori dalla lista grigia dell’FATF che monitora i finanziamenti al terrorismo. Così il governo si è limitato a mandare aiuti umanitari ai palestinesi e a ribadire il loro sostegno. “Ci appelliamo alle nazioni dell’Organizzazione della cooperazione islamica affinché forniscano urgentemente cibo e medicinali ai palestinesi. Noi tutti sosteniamo uno Stato palestinese indipendente con Al-Quds come capitale”, ha ribadito l’ex premier Shahbaz Sharif (fratello di Nawaz). Mettendo così in chiaro un paio di cose: il Pakistan, da sempre, non riconosce Israele e il suo diritto a esistere. E la chiamata alla jihad, partita dall’Iran e riecheggiata in Afghanistan e in Pakistan, viene come sempre sostenuta e supportata informalmente dai servizi segreti: i combattenti jihadi appartenenti a gruppi pachistani addestrati e sostenuti dai servizi militari da anni si uniscono a varie organizzazioni in diversi paesi. L’ex premier Imran Khan ha ammesso, tempo fa, che Islamabad addestrava i “combattenti palestinesi”. 

Hamas non è l’unica organizzazione terroristica del medio oriente con cui il Pakistan ha flirtato e per cui funge da collante. Sono stati segnalati trasferimenti di terroristi pakistani in Siria per combattere al fianco dell’Isis. Un campo di addestramento siriano ha persino preso il nome di un terrorista pachistano ucciso, Abdul Rashid Ghazi. Gruppi pachistani, tra cui la Jaish-e-Mohammad, sono attivi in Africa orientale – Somalia, Kenya e Tanzania. Tracce di jihadi pachistani sono state rilevate anche in Sudan. I pachistani hanno combattuto nella guerra di Bosnia e al fianco delle Forze azere contro l’Armenia. Anche i talebani erano, in origine, pachistani: ma loro, a differenza dei gruppi sopracitati e, soprattutto, dei gruppi jihadi pachistani, non hanno mai avuto un’agenda globale. Ciò che unifica Al Qaida, Isis, Jaish-i-Mohammed, Hamas e altri gruppi simili, è difatti il sogno del grande Califfato islamico, sogno di cui il Pakistan è sempre stato depositario e custode. Sogno di fronte al quale scompaiono per un momento anche le differenze di confessione e settarie. L’Iran, il Qatar e la Turchia, con cui il Pakistan ha rapporti più o meno stretti, finanziano Hamas ed Hezbollah così come vari gruppi jihadi, talebani compresi, che appartengono a diverse confessioni islamiche. E Islamabad cerca di compattare un blocco islamico contro Israele (e di collegare la questione palestinese con quella del Kashmir) senza irritare gli Emirati e l’Arabia Saudita da cui dipende economicamente ma che vedono Hamas come il fumo negli occhi e che molto più pragmaticamente mirano alla normalizzazione nei rapporti tra paesi dell’area geografica. E che al G20, da cui il Pakistan era escluso, avevano stipulato con l’India un accordo per un corridoio economico che, in opposizione alla Via della seta cinese, collegasse direttamente il subcontinente indiano al medio oriente. Per i pachistani, per i turchi o per gli iraniani e per i gruppi terroristici da loro sponsorizzati, non si tratta di fermare Israele, di liberare la Palestina o il Kashmir: non si tratta di guerra di liberazione, ma di guerre ideologiche. Di costruire un mondo dominato dalla sharia e dalla pax islamica. Non capire questo, significa non capire la saldatura ideologica e logistica di gruppi apparentemente così diversi e che cosa sta succedendo davvero. 

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