E' finita “l'epoca dell'imitazione” nell'Europa dell'est. Cosa è successo dopo il 1989

I populisti di Visegrad si vedono come gli eredi delle rivoluzioni liberali e vogliono salvare il Vecchio continente dal declino, spiega Ivan Krastev

Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio Internazionale: ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere a cura di Giulio Meotti


 

"La sera del 10 novembre 1989 Ivan Krastev era seduto con alcuni amici in un bar di Sofia e rifletteva su un mondo in via d’estinzione”, racconta Gavin Jacobson introducendo un colloquio, pubblicato sul New Statesman, con il politologo bulgaro di fama internazionale: “Il giorno prima il Muro di Berlino aveva inaspettatamente ceduto dopo che il regime della Germania dell’est aveva consentito ai suoi cittadini di entrare a Berlino ovest”. Krastev racconta le sue memorie del 1989, quando era un giovane studente di Filosofia che sarebbe presto diventato uno dei consiglieri di Zhelyu Zhelev, ex dissidente bulgaro e primo presidente dell’era post comunista. “La vita è cambiata in fretta e in modo inaspettato. Anche le persone sono cambiate e dalla mattina alla sera molti hanno conquistato la libertà di reinventare le proprie biografie e creare dei nuovi personaggi. Ma avevo solo 24 anni nel 1989; non c’era alcuna biografia da riscrivere.” Dopo trent’anni molte speranze sono state smentite dai fatti. “Quando è caduto il Muro di Berlino c’erano solo sedici barriere di confine nel mondo, oggi ce ne sono sessanta. Il bagliore della democrazia liberale è stato offuscato dalle politiche illiberali dei populisti di estrema destra come Viktor Orbán in Ungheria e Jaroslaw Kaczynski in Polonia, e dall’ombra di una Cina sempre più dominante”. Krastev e il suo collega Stephen Holmes hanno appena pubblicato un libro, “The Light that Failed”, in cui teorizzano la fine “dell’epoca dell’imitazione”, un periodo lungo trent’anni in cui le nazioni appena liberate dall’Europa centrale e orientale hanno cercato di copiare le democrazie liberali dell’occidente. Il desiderio di mettersi alle spalle il passato ed essere “normali”, sommato al bisogno di far parte del nuovo ordine mondiale a trazione americana, hanno spinto gli ex paesi comunisti a diventare come i loro vicini occidentali. Krastev ricorda la prima volta in cui ha “scoperto l’occidente” nel 1990 quando ha fatto tappa a Belgrado prima di raggiungere Dubrovnik in Croazia. “Sono rimasto scioccato dai libri e dai locali jazz che ho incontrato a soli centinaia di chilometri dalla Bulgaria! E’ stato come trasferirmi da un film in bianco e nero a uno a colori. Successivamente sono stato a Londra e Parigi, ma nulla regge il paragone con quella poche ore trascorse a Belgrado”.

 

Krastev e Holmes collocano le radici del populismo xenofobo e reazionario dell’est Europa nel senso di tradimento provato dalle élite che hanno imitato l’occidente. Krastev enfatizza che dopo il 1989 alcuni ex liberali anticomunisti come Orbán “hanno sì creduto nell’occidente, ma era l’occidente della Guerra fredda – che affrancava la tradizione, i valori familiari e la sovranità nazionale”. Dopo la caduta del Muro di Berlino questi valori sono scomparsi o sono stati calpestati dalla globalizzazione. “E’ difficile imitare un modello che cambia costantemente. Crea l’impressione di essere stato fuorviato, specialmente quando ti sei sentito dire che non c’è alcuna alternativa alla democrazia liberale. Il 1989 ha sottovalutato il bisogno psicologico di avere delle alternative politiche ed economiche, o almeno averne l’illusione”. Secondo Krastev gli esponenti della “democrazia illiberale” come Orbán e Kaczynski, e anche Vladimir Putin in Russia, si vedono come i veri eredi delle trasformazioni del 1989. Combinando i timori di un’implosione demografica con l’etnonazionalismo e il conservatorismo statalista, dicono di rappresentare i veri europei e sostengono che se l’occidente vuole salvarsi dovrà imitare l’est. “Quella del 1989 è stata una rivoluzione di cui si sono appropriati tutti – dice Krastev –. I liberali, la sinistra e i conservatori si sono tutti innamorati di quell’anno perché ha rafforzato la visione del mondo di ciascuno di loro. Per i liberali il 1989 è stato il momento in cui il liberismo ha scoperto il proprio potenziale rivoluzionario. Anche i marxisti classici erano ottimisti perché hanno intravisto l’opportunità di reinventare una sinistra non stalinista. I conservatori invece hanno sottolineato i fallimenti dell’economia centralizzata. E i nazionalisti come Kaczynski si sono sentiti dalla parte dei vincitori perché erano stati fortemente anticomunisti. Il nazionalismo è stato un fattore molto più importante dell’epica del 1989 di quanto non siano disposti ad ammettere i liberal”.

 

L’avanzata dell’estrema destra populista può essere invertita? “Tutto può essere invertito! – esclama Krastev – Le persone sono rimaste deluse dallo status quo liberale e lo hanno respinto, ma anche il populismo sta iniziando a deludere la gente. Le opposizioni stanno vincendo nelle grandi città in Ungheria e Polonia. La più grande divisione politica non è tra l’occidente e l’oriente ma tra i centri urbani e le zone rurali”. Krastev e Holmes concordano che una volta abbandonata l’aspirazione all’egemonia globale il liberalismo continuerà ad essere l’idea politica “più adatta al ventunesimo secolo”. A trent’anni dal 1989 stiamo vivendo un periodo di rivolte globali, segnato da proteste di massa a Hong Kong, Cile, Libano e in altre zone del mondo. Queste manifestazioni assomigliano alle rivoluzioni liberali del 1989 che hanno ispirato il giovane Krastev. “La loro legittimità è spontanea perché improvvisamente la gente si riversa nelle piazze. Queste persone non hanno le stesse affinità ideologiche. Nessuno conosce chi sta protestando. In questo senso, sono individui venuti dal nulla. Nessuno li ha organizzati. Vengono semplicemente in piazza e dicono: ne abbiamo avuto abbastanza!”. (Traduzione di Gregorio Sorgi) 

 

Questo articolo è stato pubblicato su New Statesman il 6 novembre

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