L'unità nella diversità: una genealogia dello strabismo identitario dell'Europa

Alfonso Berardinelli

Campanilisti sì, ma anche universalisti. Un saggio

Appena ricevuto, ho subito cominciato a leggere l’ottimo volume pubblicato da Donzelli, a cura di Angelo Bolaffi e Guido Crainz: “Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile” (pp. 523, 35 euro). Si tratta di una quarantina di saggi di vari autori, italiani e stranieri, dedicati alle tappe che hanno scandito, dal 1789 a oggi, storia e genealogia di un’Europa frammentata e divisa, che a forza di tragedie competitive e autodistruttive ha dovuto e voluto infine scegliere di unificarsi. Eppure, se si pensa alla storia del nostro continente, l’unità sembra una sfida tanto necessaria quanto paradossale. La ricchezza culturale europea è fatta di diversità, varietà, intensi scambi e rivalità feroci. Quale singolo paese e singolo individuo europeo vuole, vorrebbe essere anzitutto o esclusivamente europeo senza essere anche, o per prima cosa, francese o polacco, portoghese o tedesco, ungherese o irlandese? Noi europei siamo abitati da una doppia volontà, siamo affetti da uno strabismo identitario e politico forse incorreggibile. L’universalismo è una cosa idealmente bella e molto utile se si vogliono evitare intolleranze, odi nazionali e osceni conflitti. Ma non è tutto. Benché le nostre identità siano sempre più composite, ibride e fluide, mostrano però inaspettatamente una loro reale consistenza. Regionalismi e patriottismi, nonché campanilismi, continuano a sopravvivere: e non sarà mai facile credere e far credere che cancellarli sia davvero un dovere. La coesistenza di differenze e comunanze è la chiave di volta di ogni genere di vita associata. Trovare accordi restando diversi non è forse il maggiore segno di civiltà?

 

 

Il volume si apre con tre saggi dedicati alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789: diritti civili), al primo congresso della Seconda internazionale (1889: diritti sociali) e alla Grande guerra (1914: “L’incubo della modernità”), firmati rispettivamente da Raffaele Romanelli, Massimo L. Salvadori e Angelo Ventrone. E si conclude con un capitolo di Fernando Vallespin sull’indipendenza della Catalogna e con due capitoli di Bolaffi, uno sull’Europa di fronte all’America antieuropea di Trump e uno sul futuro che ci aspetta, il cui incipit suona così: “Le previsioni più pessimistiche sono andate smentite: l’Europa non si è disintegrata sotto l’urto di una planetaria ‘rivoluzione conservatrice’ nel segno del nazionalismo sovranista. Il ‘principio speranza’ si è dimostrato, almeno nel Vecchio continente, più resiliente e realistico del ‘principio paura’”. E tuttavia, aggiunge Bolaffi, questo ragionevole ottimismo non avrà futuro se l’Europa politica non saprà “ritrovare il consenso dei suoi cittadini e rifondare la propria legittimità”: poiché “al progetto europeista oggi non basta evocare le ragioni del passato”.

 

Il popolo europeo (ammesso che se ne possa parlare) è fatto di molti popoli, che hanno alle spalle storie molto diverse e che vivono in società tutt’altro che civilmente e socialmente omologate. Anche quando si parla di economia, di diritti e di doveri, di presente e di futuro, in Europa non si riesce a parlare la stessa lingua, non si possono usare sempre gli stessi argomenti, né formulare gli stessi progetti. Se è fin troppo chiaro che economicamente la Grecia non è la Germania, è anche vero che politicamente le situazioni sono anche più variate e facilmente variabili. Ogni volta che i governi di ciascun paese si spostano da sinistra a destra o da destra a sinistra, le trattative e gli accordi fra nazioni incontrano problemi e ostacoli altrettanto variabili. L’instabilità è inoltre accentuata dal fatto che le stesse categorie culturali e sociali che definiscono destre e sinistre sono incerte, oscillanti, ambivalenti, perfino inconsistenti. Il che si rivela, in particolare, quando si usa il concetto pseudosociologico di populismo, che nella realtà di fatto permette demagogie di segno opposto: non solo perché la xenofobia è diffusa sia nell’elettorato di destra (che la esibisce) sia in quello di sinistra (che la dissimula), sia perché c’è in tutta la popolazione tanto un bisogno di sicurezza che un bisogno di equità, tanto un desiderio di cambiamento che un desiderio di stabilità.

 

Piuttosto deludente è il versante culturale del libro. E’ senza dubbio cultura parlare di costituzioni, istituzioni, norme, eventi e processi politici: ma si parla piuttosto poco di scienze, arti, idee, intellettuali, forme e contenuti dell’educazione. Crainz scrive proprio all’inizio della sua introduzione che il libro nasce “dalla convinzione che la crisi attuale dell’Europa chiami in causa pesanti responsabilità politiche ma anche responsabilità e inerzie della cultura”. Ma poi di queste ultime non ci si occupa distesamente in quasi nessuno dei quaranta saggi. I soli due capitoli più frontalmente culturali, quelli dedicati alla “Montagna incantata” (1924) di Thomas Mann e al “Secondo sesso” (1949) di Simone de Beauvoir, risultano essere perciò una imbarazzante eccezione: imbarazzante perché fanno venire in mente al lettore troppi altri autori e libri, non solo mai esaminati, ma neppure citati nel corso di cinquecento pagine. E’ vero che gli autori dei saggi sono quasi tutti giuristi, storici, sociologi, politologi: ma il solo che era professionalmente adatto a dire qualcosa sulle letterature europee, Giovanni Puglisi, professore emerito di Letterature comparate, studioso di Estetica e Critica letteraria, dottore honoris causa in Filologia dell’Università di Salamanca, neppure lui nel suo capitolo cita scrittori, né critici letterari, per concentrarsi esclusivamente sulla Costituzione dell’Unesco, istituzione della cui attività reale non veniamo a sapere niente. Peccato. Purtroppo chi scrive la storia sembra avere orecchi poco sensibili alla voce della letteratura e alle verità micro e macrostoriche che rivela.

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