Gergely Karácsony, Rafal Trzaskowski, Zdenek Hrib e Matús Vallo (foto LaPresse)

Il patto dei sindaci dell'est per costruire un ponte verso Bruxelles

Micol Flammini

Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava vogliono proteggere l’elettorato europeista dai governi. L’altro volto di Visegrád

Roma. Le città più grandi, le capitali, sono spesso diverse dal resto del paese. La pensano a modo loro. Se il paese si chiude, la città si apre. Se il paese vuole una exit, la città vuole restare unita. Le capitali europee vivono con angoscia le trasformazioni che sono costrette a subire a causa dei governi centrali e lottano per rimanere custodi dei valori democratici, per rimanere città stato. L’est Europa sente questa condizione con maggiore forza e disperazione, così i sindaci di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava si sono incontrati ieri in Ungheria per firmare un “Patto delle città libere”. Hanno promesso che lavoreranno per difendere il loro elettorato urbano europeista, contrario alle politiche nazionaliste, e attento al futuro verde del continente. Seduti attorno a un tavolo quadrato, un sindaco per ogni lato, i quattro hanno voluto mostrare l’altro volto di Visegrád, forse più vicino allo spirito originario del primo incontro tra i leader dei paesi nel 1991. Il gruppo di Visegrád non era nato per erigere muri contro l’Ue, ma per promuovere e velocizzare l’integrazione. Era un bastione europeista, ansioso di sentirsi europeo. Negli ultimi anni, il premier ungherese Viktor Orbán è diventato l’alfiere di un blocco sempre più simile a un’Europa dentro all’Europa, di una Visegrád in contrasto con Bruxelles. Lo scopo dei quattro sindaci è quindi una nuova costellazione europeista e liberale. “Le città – ha detto Gergely Karácsony, sindaco della capitale ungherese – hanno sempre difeso i valori della solidarietà. Faremo di Budapest una testa di ponte verso l’Europa”. 

 

 

Il 13 ottobre scorso si sono tenute delle elezioni importanti nell’est dell’Unione europea. La Polonia votava per rinnovare il Parlamento e il PiS, partito nazionalista Diritto e giustizia, ha ottenuto il 44 per cento dei voti, ma non è riuscito a ottenere l’approvazione di Varsavia. La capitale è rimasta isolata, ma convinta di non voler perdere la sua unicità, contenta di interpretare la voce del dissenso contro le politiche illiberali del partito di Jaroslaw Kaczynski. Lo stesso giorno in Ungheria si sono tenute le elezioni locali e, per la prima volta dopo nove anni, Orbán ha perso la sua capitale. A Budapest ha vinto Gergely Karácsony, che è riuscito a mettere insieme tutti i partiti di opposizione e a convincerli che le loro differenze, mentre la loro patria diventava il primo esperimento europeo di democrazia illiberale, erano secondarie. Il segnale per Fidesz è stato talmente forte che si è trovato a dover ripensare la propria strategia e a porsi il dilemma di tanti partiti: mi sposto al centro o vado ancora più a destra? Il Partito di Viktor Orbán sa che estremizzandosi ancora di più aggraverebbe la sua situazione nel Partito popolare europeo – dove vive da sorvegliato speciale, è stato sospeso e il Ppe dovrà decidere se espellerlo o reitegrarlo – ma dopo alcune settimane di silenzio ha recuperato la sua verve illiberale, se l’è presa con i media, ha ricominciato le campagne antisemite e per limitare il potere delle opposizioni ha fatto approvare una legge che riduce il loro potere in Parlamento.

 

 

Praga e Bratislava sono immerse in contesti diversi. In Repubblica ceca, il premier Andrej Babis è accusato di aver usato per le proprie aziende i fondi europei, la piazza da quest’estate ne chiede le dimissioni, e la capitale è diventata attivissima. Babis ha poco a che vedere con Orbán e con Kaczynski, non è un euroscettico, anche se si è schierato al loro fianco contro il Green Deal della Commissione von der Leyen. Non ha promosso leggi illiberali, ma contro di lui ci sono diverse accuse di conflitto di interessi e corruzione. Il sindaco di Praga è un esponente del Partito dei pirati, è contrario a Babis e in questi mesi è diventato famoso soprattutto per le sue posizioni anticinesi, ha anche mandato pubblicamente a quel paese l’ambasciatore di Pechino a Praga, ed è fiero delle posizioni della sua città e del fatto che sia diventata il baluardo delle proteste, le più grandi dai tempi del comunismo. Anche Bratislava si è liberata di un grande peso, dopo l’omicidio del giornalista Ján Kuciak, la cittadinanza si è risvegliata e l’elezione alla presidenza di Zuzana Caputová è stata un grido di liberazione per la nazione e un sospiro di sollievo per l’Europa. Dopo anni di euroscetticismo e virate illiberali, l’arrivo della Caputová, un avvocato, che ha promesso di riavvicinare la Slovacchia all’Ue, di lottare contro la corruzione, mette Bratislava in una posizione diversa rispetto a quella dei colleghi dell’est.

 

 

Ieri, Gergely Karácsony, Rafal Trzaskowski, Zdenek Hrib e Matús Vallo, rispettivamente sindaci di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava, tutti riuniti nell’ex campus della Central European University, l’ateneo fondato dal filantropo George Soros e chiuso da Orbán lo scorso anno, hanno voluto mandare un segnale a Bruxelles per dirle che se i rapporti con i loro governi sono difficili, possono sempre contare su di loro, isole di democrazia e libertà. Vorrebbero costruire un ponte, tra loro e il cuore dell’Europa. La proposta del “Patto delle città libere” non è soltanto la costituzione di un punto ideale fatto di valori e cooperazione europeista, ma anche economica. Dopo l’inchiesta pubblicata un mese fa in cui il New York Times raccontava come i governi dell’est, soprattutto Ungheria e Repubblica ceca, avevano usato per anni in modo improprio i sussidi per l’agricoltura, i sindaci chiedono che Bruxelles li aiuti a incanalare i fondi direttamente nelle loro città, senza bisogno dei governi centrali. Un ponte liberale verso l’Unione.