Cosa sta succedendo in Siria dopo sette anni di guerra

Il conflitto ha causato oltre 350.000 morti, città distrutte e almeno 5 milioni e mezzo di profughi. Al momento ci sono tre fronti che si intrecciano tra loro e rendono lo scenario molto complicato

Enrico Cicchetti e Luca Gambardella

La guerra in Siria è entrata nel suo settimo anno. Un conflitto che ha causato oltre 350.000 morti, città distrutte e almeno 5 milioni e mezzo di abitanti fuggiti all’estero. Finora i sette vertici organizzati dall’Onu per trovare un accordo tra i gruppi siriani e interrompere le ostilità non hanno ottenuto risultati. Con il ridimensionamento dello Stato islamico, gli accordi di Astana e la conferenza di Sochi, che era prevista a fine gennaio 2018, sembrava alla fine dell’anno scorso che il conflitto fosse in una fase conclusiva. Le trattative di pace erano riprese a Ginevra nel dicembre scorso, dopo che diversi movimenti di opposizione al regime del presidente siriano, l'alauita Bashar el Assad, erano confluiti in un'unica delegazione con una posizione comune per avviare la transizione politica. La previsione di una soluzione alla guerra in Siria si è rivelata errata. O almeno troppo affrettata.

   

 

Come è iniziato il conflitto in Siria

Ancora prima che iniziasse la guerra, la Siria era colpita da un'elevata disoccupazione, dalla corruzione e dalla repressione delle libertà politiche. La società – in particolare alcune minoranze etniche, come i curdi – erano sotto lo stretto controllo dei servizi segreti del presidente Bashar el Assad, che succedette nel 2000 al defunto padre Hafez. Il 6 marzo 2011 a Daraa (nel sud del paese, vicino alle Alture del Golan), un gruppo di giovani disegnò alcuni graffiti con slogan antigovernativi sul muro di una scuola. Il giorno seguente, la polizia arrestò decine di ragazzi e li trattenne senza dare notizie alle famiglie. Il 15 marzo del 2011, migliaia di persone scesero per le strade di Damasco e Aleppo, in una delle prime grandi proteste contro il regime, anche sull’onda della “primavera araba” che aveva già contagiato i paesi del nord Africa. Il governo inviò l’esercito a reprimerle con la forza, senza successo. Nel nord del paese, alcuni manifestanti assaltarono le caserme e si impadronirono delle armi. Costretti a sparare sulla folla, alcuni soldati cominciarono a disertare. Il 29 luglio, quattro mesi dopo le prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita del Free Syrian Army, (Fsa) l’Esercito libero siriano. Le manifestazioni contro il regime si erano trasformate in guerra civile. E presto arrivarono i primi “foreign fighters” per combattere soprattutto al fianco dei ribelli.

  

  

Ora in Siria sono in corso tre conflitti che si intrecciano tra loro e rendono lo scenario molto complicato. Si possono sintetizzare così: quello tra il regime di Damasco e i ribelli, quello tra curdi e turchi, e quello contro lo Stato islamico.

   

   
La guerra tra i ribelli e Assad

Ad oggi, le forze governative prevalgono sui ribelli. Il rapporto numerico tra i due eserciti dà un vantaggio schiacciante al regime di Damasco che è sostenuto dai russi, dagli iraniani e da Hezbollah. Di contro, il sostegno esterno ai ribelli è andato via via diminuendo, con gli Stati Uniti che hanno tagliato di molto gli aiuti ai combattenti curdi e al Fsa. Quest'ultimo riceve finanziamenti anche dai paesi del Golfo Persico. La vittoria principale ottenuta dal Fsa in questi anni di guerra è stata quella del 2016 con la liberazione di Aleppo, seconda città della Siria, dal regime di Assad. Nel frattempo nello schieramento dei ribelli hanno preso sempre più piede anche brigate e bande autonome. Tra queste c’era un gruppo di miliziani iracheni che aveva combattuto insieme ad Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq: il 23 gennaio 2012 formarono il Fronte al Nusra, un gruppo estremista che “rappresenta” al Qaida in Siria. Al Nusra ha cambiato nome (e strategia) in Jabhat Fateh al Sham nel luglio 2016, separandosi formalmente da al Qaida, e a fine gennaio 2017 il gruppo jihadista si è fuso con quattro formazioni minori, assumendo il nome Hayat Tahrir al-Sham ("Organizzazione per la liberazione del Levante"). Nella galassia delle milizie che si oppongono a Damasco, oltre al Fsa, ci sono anche i curdi dell'Ypg (Unità di protezione popolare).

  

Nonostante la loro superiorità schiacciante, gli assadisti hanno incontrato enormi difficoltà nel gestire e amministrare i territori conquistati. Uccidendo migliaia di civili, distruggendo le fabbriche e dividendo ancora di più il paese, l'esercito di Assad ha perso buona parte della legittimazione popolare. Di recente, l'offensiva aerea del regime nella regione della Ghouta, ha ucciso circa 500 civili e ha attirato – come avviene ciclicamente per le grandi tragedie della guerra siriana – l'attenzione del mondo sul massacro di innocenti. 

     

 

L’Osservatorio siriano per i diritti umani, un gruppo di monitoraggio con sede nel Regno Unito che si avvale di una vasta rete di fonti dirette in Siria, ha documentato la morte di 353.900 persone dal 2011 al marzo 2018, tra cui 106.000 civili. A queste vanno aggiunte le 56.900 persone attualmente disperse. Il gruppo ha anche stimato che sono circa 100.000 le morti non ancora documentate. 

   

 

Il regime è anche responsabile di avere attaccato più volte i civili usando armi chimiche. Le Nazioni Unite hanno inviato nel paese un gruppo di esperti – l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) – col compito di valutare le prove esistenti degli attacchi a base di gas sarin da parte del regime. I dati raccolti hanno dimostrato che in più occasioni – sicuramente nel 2013 nella Ghouta e poi lo scorso anno nel villaggio di Khan Sheikhoun – l'aviazione di Damasco ha impiegato gas sarin causando centinaia di morti. Nel 2013 l'ex presidente americano Barack Obama aveva dichiarato che se Assad avesse superato la “linea rossa” delle armi chimiche gli Stati Uniti non sarebbero rimasti a guardare. In realtà il primo intervento militare americano contro il regime è arrivato solo 4 anni dopo, con l'Amministrazione di Donald Trump.

    

Un soldato delle forze speciali turche sul confine turco-siriano a nord di Azaz, il 28 gennaio 2018 (LaPresse)


 

La guerra tra curdi e turchi

La situazione sul campo in Siria può essere sintetizzata così: i tre attori esterni intervenuti nella guerra siriana, Russia, Turchia e Iran, non hanno ancora trovato un accordo solido e condiviso sulla questione curda e lo spezzettamento confuso del campo di battaglia nel nord e nell’est ne è la conseguenza. Sembrava tutto più facile quando il nemico designato era soltanto il gruppo di fanatici decapitatori di Abu Bakr al Baghdadi. A gennaio di quest'anno, la Turchia ha avviato una missione militare nel nord della Siria, denominata “Ramo d'ulivo” per sottrarre ai curdi siriani i territori che sono sotto il loro controllo. L'esercito del presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, ha accerchiato la cittadina di Afrin, che è controllata dalle milizie curde e si trova nel nord del paese. I turchi hanno chiuso tutte le vie di accesso, tranne una per permettere ai civili di mettersi in salvo dai combattimenti.

 

 

Ankara è in guerra da anni con i ribelli curdi del Pkk, il partito fuorilegge del Kurdistan, e ritengono i curdi siriani dell'Ypg una branca dei terroristi con cui combatte in patria. I curdi siriani non vogliono tornare a fare parte di uno stato governato da Assad, che prima della guerra li aveva discriminati e non gli aveva nemmeno riconosciuto il diritto di cittadinanza siriana per limitarne i movimenti. Dopo lo sconfinamento dei turchi in Siria, l'esercito di Assad è subito intervenuto, stavolta per difendere i nemici curdi dall'offensiva di Erdogan: per il presidente siriano è meglio schierarsi con l'Ypg, piuttosto che tollerare un'aggressione turca entro i propri confini. Allo stesso tempo, i curdi di Afrin preferiscono tornare sotto uno stato guidato da Assad invece che finire parte di una provincia turca. Quella di Assad era comunque una mossa opportunistica. Basti pensare che più a est, a Deir Ezzor, il regime di Damasco combatte contro i curdi che sono sostenuti dagli americani. Proprio in questi giorni, infatti, le truppe assadiste hanno abbandonato la zona di Afrin, dopo aver perso decine di uomini sotto ai bombardamenti della Turchia, che ha ormai "liberato più del 70per cento della regione", come rivendicato dal portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin. L'Europarlamento si prepara a discutere una mozione che chiede ad Ankara il ritiro delle sue truppe dal nord della Siria. "Quello che dite ci entra da un orecchio ed esce dall'altro", ha risposto Erdogan. "Non lasceremo l'area di Afrin finché il nostro compito non sarà concluso. Dovreste saperlo". Ormai l'intera regione al confine turco sembra essere passata di mano, anche con il benestare della Russia, che il 19 marzo scorso ha ritirato i suoi asset militari dall'area, per lasciare il passo ai turchi.

  

Forze democratiche siriane sotto uno striscione dello Stato islamico ad al Karamah il 26 marzo 2017


 

La guerra contro il Califfato

Dopo che lo Stato islamico aveva preso il controllo di buona parte di Siria e Iraq, oggi il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi è quasi del tutto collassato. La caduta della capitale Raqqa, grazie all'offensiva dei curdi sostenuti dagli americani, ha costretto i jihadisti sunniti a tornare a nascondersi nelle aree più desertiche del paese. Dopo essersi gradualmente ritirati, i combattenti del califfo sono stati costretti a cambiare tattica e a tornare ad attentati terroristici sporadici contro curdi e assadisti.

 

  

Il campo profughi nella provincia nord-orientale di Hassakeh (LaPresse)


   

Le conseguenze del conflitto sulla popolazione siriana

Oltre a causare centinaia di migliaia di morti, la guerra ha lasciato un milione e mezzo di persone con disabilità permanenti – 86.000 hanno perso gli arti. Almeno 6,1 milioni di siriani sono sfollati in diverse regioni del paese, mentre altri 5,6 milioni sono fuggiti all'estero.

  

 

Il 92 per cento dei rifugiati vive attualmente nel vicino Libano, in Giordania e in Turchia. Secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2018 ci saranno 13,1 milioni di siriani che richiederanno una qualche forma di aiuto umanitario. Le parti in conflitto hanno peggiorato le cose, rifiutando a molti di coloro che ne hanno bisogno l'accesso agli aiuti umanitari. Quasi 3 milioni di persone vivono in zone assediate o difficili da raggiungere.

 

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