Con chi state negoziando

Paola Peduzzi e Daniele Raineri

Nell’ingranaggio assadista fatto di servizi di sicurezza e prigioni politiche una rotella è impazzita e si è staccata

L’interrogatorio di “Caesar”. Nella seconda settimana di gennaio tre avvocati d’accusa specializzati in crimini di guerra che in passato hanno lavorato per le corti speciali delle Nazioni Unite sono volati in medio oriente per interrogare un disertore siriano speciale. L’uomo ha lavorato per 13 anni come fotografo della polizia militare: andava sulla scena di un crimine o di un incidente e scattava le foto. Ma da quando nel 2011 è cominciata la guerra contro il regime, ha spiegato ai tre, la sua mansione è cambiata. Assieme agli altri colleghi della scientifica è stato messo a fotografare i corpi dei prigionieri uccisi dalle agenzie di sicurezza del governo siriano. Certe volte anche 50 cadaveri ogni giorno. Dai quindici ai trenta minuti di lavoro per ciascuno. Lo scopo del suo lavoro era duplice: confermare la morte del prigioniero alla famiglia, che così perdeva il diritto di reclamare il cadavere, e provare ai superiori che l’ordine di uccisione era stato eseguito. C’è una procedura: a ogni cadavere è associato un numero che identifica da quale servizio di sicurezza è stato ucciso; il cadavere è poi spostato nell’ospedale militare; soltanto allora c’è la dichiarazione di morte per cause naturali, come “infarto” o “difficoltà respiratorie”; infine viene sepolto in una zona rurale. Nell’inserto due vedete alcune di queste foto trafugate. I tre procuratori hanno interrogato l’uomo – che nel rapporto è chiamato soltanto “Caesar”, per ragioni di sicurezza – per tre giorni. Caesar ha scattato migliaia di foto e così i suoi colleghi, consegnate ai loro capi per gli archivi e poi contrabbandate fuori dalla Siria su memory card. In totale i cadaveri sono undicimila, fotografati tra il marzo del 2011 e l’agosto del 2013, ma provengono soltanto da un’area. Ci sono altre squadre come quella di Caesar. E’ un catalogo incompleto.

 
 
Prove per un futuro processo. La guerra civile in Siria è anche un disastro di disinformatia, la strage con il gas nervino di agosto viene attribuita ancora da qualcuno ai ribelli invece che alle truppe del governo, c’è uno scontro continuo tra versioni opposte della stessa notizia. Per questo le foto di Caesar e lui stesso sono stati affidati a una squadra che ha dovuto valutarne l’attendibilità. Prima i tre procuratori: Desmond de Silva, che ha diretto l’inchiesta della Corte speciale per i crimini di guerra in Sierra Leone; Geoffrey Nice, che aveva lo stesso incarico nel tribunale penale internazionale formato per i crimini nell’ex Yugoslavia; David M. Crane, anche lui procuratore nella Corte speciale per la Sierra Leone. Poi le foto sono state passate a tre esperti forensi, utilizzati nelle indagini criminali, che le hanno analizzate senza sapere di cosa si trattava. Il fotografo disertore non faceva più scatti da scientifica, perché non gli erano chiesti, doveva soltanto provare la morte dei soggetti: non rovesciava nemmeno i corpi per fotografare la schiena, non era richiesto. Anche così, gli esperti notano segni di torture: i morti hanno i segni di una malnutrizione estrema e in molti casi hanno le ferite violacee di chi è stato percosso con una sbarra di ferro. Alcuni di loro hanno attorno al collo il livido di uno strangolamento, distinguibile da quello di un’impiccagione perché è trasversale, non rispetta la legge di gravità. Un’altra cosa si capisce: l’uccisione e la tortura sono sistematiche. Su scala industriale. Organizzate secondo una precisa burocrazia, in cui non circola fiducia: se i capi ordinano dall’alto di eliminare certi prigionieri, poi vogliono la prova fotografica.

 

Così, questa non è la prima denuncia delle torture e delle uccisioni dentro le celle del governo di Assad, ma è la meglio documentata. I tre procuratori parlano chiaro: considerano il dossier un lavoro preliminare in vista di una possibile incriminazione davanti a un tribunale internazionale del presidente siriano Bashar el Assad e dei capi dei suoi servizi di sicurezza. Queste prove sono già solide. Il fatto che il caso di Caesar sia stato reso pubblico sulla rete americana Cnn e sul giornale inglese Guardian due giorni prima dell’inizio dei negoziati tra governo siriano e una parte dell’opposizione è esattamente quello che sembra: un messaggio intimidatorio mandato con una precisa scelta di tempo. Assad non può sperare che tutto torni come prima, se e quando questa crisi finirà. Può essere incriminato. Nell’ingranaggio assadista fatto di servizi di sicurezza e prigioni politiche una rotella è impazzita e si è staccata.

 

“Starvation Until Submission Campaign”. Dal 2012, gli obiettivi principali dei bombardamenti delle forze del regime siriano sulle zone controllate dai ribelli erano le panetterie. Prima dei depositi di armi, nella lista delle priorità, c’erano i depositi di farina e ogni riserva di cibo. Oggi non passa nemmeno un sacchetto di pane attraverso i checkpoint dell’esercito: David Gardner sul Financial Times ha raccontato di un soldato di Assad alle prese con un ragazzino dall’altra parte del checkpoint, nell’area dei ribelli, un ragazzino che lo implorava di dargli qualcosa da mangiare, qualsiasi cosa, e il soldato gli ripeteva: “Ci sono quelli più grossi di me e te che stabiliscono le regole, e ora ci stanno guardando”. La regola dei più grossi – di Assad – è la “starvation”, far morire di fame il proprio popolo per costringerlo, infine, alla resa. Un funzionario del regime nel centro di Damasco, ha scritto la Reuters, ha detto che c’è una campagna in corso, che esplicita la strategia: è la “Starvation Until Submission Campaign”. Sul Times di due giorni fa, un abitante di quelle cittadine alla periferia di Damasco che sono state affamate dal regime per mesi (e alcune sono state anche colpite dagli attacchi chimici) diceva: “La comunità internazionale ha cancellato dalla memoria i massacri chimici. Non parla dell’utilizzo dei missili Scud, del napalm, del fosforo bianco, di tutte la armi proibite. L’ultima novità è il regime che cerca di farsi bello con gli aiuti umanitari offerti al popolo siriano. Assad ha usato la fame contro un milione e mezzo di persone”. Ghouta è un’area nella periferia di Damasco colpita dalle armi chimiche di Assad: le provviste di cibo sono finite assieme all’estate. A ottobre i leader religiosi avevano proclamato una fatwa che permetteva di mangiare carne di cane, gatto e asino. A fine novembre Ghouta è tornata nelle cronache dei giornali internazionali perché i suoi abitanti, senza cibo, hanno deciso di ammazzare un leone dello zoo, scuoiarlo e mangiarlo. La foto del cadavere dell’animale ha fatto il giro del mondo, il network dei ribelli l’ha fatta circolare per il suo significato simbolico: leone, in arabo, si dice Assad.

 

L’autostrada chiusa. Il 2 ottobre, Sam Dagher ha raccontato sul Wall Street Journal quel che stava accadendo a Moadhamiya, a undici chilometri dal centro di Damasco, ormai dall’aprile scorso. La cittadina è divisa a metà, da una parte ci sono i ribelli e dall’altra il regime. La parte controllata dai ribelli è stata colpita nell’attacco chimico del 21 agosto 2013 – quello dell’“oscenità morale”, per intenderci – e ci sono stati almeno 80 morti. Da allora l’assedio del regime si è intensificato: non c’è luce, non c’è acqua, le riserve di grano che tradizionalmente i siriani mettono via per l’inverno sono finite prima dell’autunno, si sopravviveva con menta, fichi, foglie d’uva e olive (i rametti di ulivo sono stati a lungo il simbolo della protesta pacifica di Moadhamiya contro il regime). Secondo le Nazioni Unite, almeno mezzo milione di siriani è ridotto alla fame nella periferia di Damasco. Un ragazzo ha raccontato al reporter del Wall Street Journal che un suo amico di Moadhamiya lo aveva chiamato chiedendogli di fargli avere un po’ di cibo per far mangiare la sua famiglia. Era riuscito a entrare nella vicina Daraya, nonostante i cecchini appostati, per recuperare un sacco di grano. Fino ad agosto – scrive Sam Dagher – chi simpatizzava con gli abitanti intrappolati a Moadhamiya lanciava sacchi di cibo dai finestrini delle automobili mentre percorrevano l’autostrada tra Damasco e Quneitra, che passa rasente la città. I residenti sfidavano i cecchini per recuperare quei sacchi, che sono stati per mesi l’unico loro sostentamento. Poi il regime ha chiuso quel pezzo di autostrada, sono rimasti soltanto i cecchini, non vola più nemmeno un sacco. Una dopo l’altra, queste cittadine nei pressi di Damasco si stanno arrendendo, firmano tregue: così la propaganda di Assad può ora mostrare gli aiuti umanitari con i simboli del regime, ultima beffa di un dittatore che tortura e affama il suo popolo ma ancora è considerato un interlocutore dalla comunità internazionale.

 

“Non sento il bisogno di un George Kennan”. Samantha Power non dev’essere contenta di quel che è accaduto all’Onu negli ultimi giorni. L’invito all’Iran per la Conferenza di pace, che si apre oggi a Montreux, fatto dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e poi ritirato su pressione degli americani è l’ultimo capitolo di un pasticcio diplomatico iniziato dallo stesso Barack Obama quando si fece scappare la frase sulle “linea rossa” in Siria. Samantha Power è l’ambasciatrice di Obama all’Onu, è una signora dagli occhi chiari che dopo aver visto, come giornalista, i massacri in Bosnia ha dedicato la sua esistenza a denunciare i genocidi, con l’intento di prevenirli. In quei pochi giorni, alla fine dell’agosto scorso, in cui l’America sembrava pronta a uno strike contro il regime siriano (e Assad, che del leone ha il nome ma non il cuore, stava già iniziando ad accettare condizioni e compromessi), Samantha Power tenne un discorso chiaro e bello e circostanziato sul perché il regime di Damasco dovesse cadere (il Foglio lo tradusse, credendoci). Erano state usate le armi chimiche, e quella era la linea rossa, ma c’erano la tortura, la fame, gli omicidi di massa a rendere inevitabile – e moralmente giusto – il regime change in Siria. Qualche ora dopo quel discorso, Obama cambiò idea, e ora Samantha Power, che pure ha cercato di ribadire la sua idea pur non essendo quella ufficiale del paese che rappresenta all’Onu, si è concentrata su altri dossier (soprattutto, in questi giorni, la crisi nella Repubblica centrafricana). O forse ci è andata da sola, non è dato sapere.

 

Certo non è facile sostenere la versione di Ban Ki-moon, il quale dice che l’Iran è stato invitato a Montreux perché aveva detto di essere favorevole a un piano di transizione del potere in Siria e poi si è rimangiato la parola. L’Iran a favore di una rimozione di Assad da Damasco? Si può credere a una dichiarazione del genere? Secondo Foreign Policy, gli americani non erano del tutto contrari all’invito (anzi, il segretario di stato John Kerry aveva detto che un coinvolgimento di Teheran era ben accetto), “ma hanno calcolato male la reazione dell’opposizione siriana”. Cioè gli americani non avevano capito che chi si oppone ad Assad, perché è stato massacrato da Assad, non vuole negoziare con l’Iran, primo sponsor di Assad?

 

E’ tutto troppo improbabile per essere credibile. Anche se ancora è illuminante quel che David Remnick, direttore del New Yorker, scrive sulla politica estera di Obama, citando le parole di Ben Rohdes, viceconsigliere per la sicurezza nazionale: “Nell’establishment di politica estera, essere un idealista significa essere a favore dell’intervento militare. Nel Partito democratico, questo dibattito si è svolto negli anni Novanta, e gli idealisti si sono allineati agli interventi militari. Per il presidente Obama, l’Iraq è stato la ‘defining issue’, e la Siria oggi è vista attaverso questa lente, come la Libia – per essere un idealista devi intervenire militarmente. Abbiamo speso milioni di miliardi di dollari per un decennio, e non si può dire che sia rimasta un’influenza positiva. Anzi, è l’opposto. Non sembra che possiamo uscire da questi schemi”. La resistenza di Obama all’idealismo, scrive Remnick, non lo porta nemmeno nel campo dei realisti, la Casa Bianca adotta più la politica del particolarismo, ogni paese va affrontato senza troppi paragoni, e senza una strategia omnicomprensiva. Come spiega Obama: non c’è bisogno di una nuova dottrina, “non sento per nulla il bisogno di un George Kennan”, teorico del contenimento dell’Unione sovietica, piuttosto è meglio avere gli alleati giusti. O come dice Anne-Marie Slaughter, che ha lavorato al dipartimento di stato di Hillary Clinton: “Obama comprende molto bene i limiti del nostro potere. Non è che gli Stati Uniti sono in declino, è che a volte il mondo ha dei problemi, ma non gli strumenti per risolverli”.

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