I bombardamenti di Douma, un sobborgo a est di Damasco (foto LaPresse)

Una strage con armi chimiche potrebbe spingere Trump a un possibile attacco in Siria

Luca Gambardella

Dopo i bombardamenti di Douma, con decine di morti tra i civili, il presidente americano potrebbe tornare sui suoi passi e decidere che forse l'America First, per ora, può attendere. Nella notte raid israeliano a Homs

Questa notte aerei israeliani hanno bombardato la base T-4, nel deserto siriano a est di Homs, con alcuni missili cruise sparati mentre erano in volo sopra il confine libanese e hanno ucciso circa quindici soldati iraniani e siriani. Gli aerei di Israele hanno colpito mentre in Siria c’è un’atmosfera ancora più tesa del solito perché ci si aspetta una possibile rappresaglia di America e Francia dopo il terzo massacro di civili fatto con armi chimiche dalle forze armate del presidente Bashar el Assad nel corso dei più di sette anni di guerra civile.

 

"Molti morti, incluse donne e bambini, in un folle attacco CHIMICO in Siria". Ieri su Twitter Donald Trump ha accusato pubblicamente il presidente russo Vladimir Putin di sostenere assieme all'Iran il regime di Assad, definito "un animale". Il messaggio di Trump fa riferimento all'attacco lanciato sabato dalle forze armate di Damasco contro i ribelli in un sobborgo a est della città, a Douma, che ha causato un numero ancora indefinito di morti (si parla di una cinquantina di vittime, il bilancio potrebbe aumentare). Gli assediati hanno diffuso video e foto drammatiche dei morti e dei feriti, soffocati dai gas all’interno di un rifugio dove avevano cercato riparo dai bombardamenti convenzionali.

  

 

Solo pochi giorni fa, Trump aveva annunciato la sua intenzione di tornare ad applicare la dottrina dell'America First, ritirando le truppe americane dalla Siria. Ma ora, dopo il sospetto attacco chimico a Douma (che non è il primo), è in dubbio che l'intenzione del presidente degli Stati Uniti sarà davvero messa in pratica. Il rischio, come nota il New York Time, è che l'opinione pubblica americana e soprattutto la comunità internazionale non accettino volentieri l'idea di un suo passo indietro. Tra i paesi che più di tutti spingono per una permanenza dei soldati americani in Siria ci sono Arabia Saudita e Israele, due alleati stretti degli Stati Uniti, preoccupati dal rischio – che a ben vedere è già realtà – di vedere il paese diventare l'avamposto militare dell'Iran. Al momento nel paese ci sono circa 2mila militari americani, dislocati soprattutto nell'est del paese controllato dai curdi e il timore condiviso da molti esperti è che riportarli a casa potrebbe favorire il ritorno degli uomini dello Stato islamico. Quel che rimane dell'esercito del Califfato oggi è costretto a nascondersi in zone desertiche al confine con l’Iraq e a lanciare attacchi terroristici isolati.

 

La decisione finale di Trump resta per ora un'incognita e non si sa se il tweet di ieri porterà a una vera decisione politica. Di certo, l'annuncio del ritiro dalla Siria ha diviso il partito repubblicano. Dopo l'attacco a Douma, il senatore John McCain ha commentato che "la sua promessa di un ritiro dalla Siria ha solo rafforzato Assad". Il presidente americano "lo scorso anno ha risposto dopo un attacco chimico (con l'attacco missilistico contro la base siriana di al Shayrat, ndr). Dovrebbe fare lo stesso adesso". Il rischio per Trump è che la stessa retorica che aveva usato in passato per condannare il disimpegno di Barack Obama in Siria sia rivolta oggi contro di lui.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.