Il premier Giuseppe Conte in videoconferenza con i capi di Stato e di governo dell'Ue (foto LaPresse)

Le due Europe dopo l'accordo del 9 aprile

Angelo Baglioni e Massimo Bordignon*

Da un lato le istituzioni europee, che nella crisi hanno dato nel complesso una buona prova di sé, dall'altra i paesi membri, che invece hanno clamorosamente fallito. Riflessioni sull'intesa raggiunta dall'Eurogruppo

L’accordo raggiunto all’Eurogruppo nella notte del 9 aprile per affrontare la crisi del coronavirus suscita riflessioni sia di metodo che di merito, e forse le prime sono in questo caso perfino più importanti delle seconde.

 

Le due Europe

Quando si parla genericamente di “Europa” si dovrebbe sempre specificare che in realtà di “Europe” ne esistono almeno due; una è quella rappresentata dalle istituzioni europee, la Commissione, il Parlamento Europeo, la Corte di Giustizia etc. e per i paesi che hanno adottato l’euro, anche la Bce. Poi c’è il Consiglio nelle sue varie incarnazioni: Euro-gruppo, Ecofin, Consiglio Europeo etc. Qui siedono i rappresentanti dei paesi membri, alcuni dei quali hanno messo in comune anche la moneta. Le istituzioni europee decidono in modo diverso (la Bce nei limiti tecnici del suo mandato), ma comunque con un metodo sovranazionale e avendo in mente una constituency europea. I paesi invece anche quando discutono di interventi a livello europeo portano sempre avanti istanze nazionali, contrattano tra di loro e per esempio nel caso dell’Eurogruppo decidono solo all’unanimità. Questo è il metodo intergovernativo.

 

La prima riflessione importante è che mentre la prima Europa di fronte alla crisi ha dato nel complesso una buona prova di sé, la seconda ha clamorosamente fallito, se non forse nei contenuti, certo nel modo con cui li ha comunicati. Anche nel caso dell’Europa “sovranazionale”, c’è stato qualche scivolone iniziale (la famosa dichiarazione della Christine Lagarde sugli spread o i tentennamenti della Ursula von der Leyen); ma appena si sono accorte della gravità della crisi, le istituzioni europee si sono mosse nel complesso efficacemente, dati i limiti delle loro risorse e delle loro competenze. La Bce ha messo in piedi un programma mai visto di supporto al sistema bancario e ai paesi, che tra l’altro nel caso italiano ci consente di pagare, nonostante tutto, ancora interessi molto bassi sul nostro debito. La Commissione con l’appoggio del Parlamento, ha sospeso il Patto di Stabilità, la disciplina sugli aiuti di stato, rivisto l’allocazione dei fondi e più in generale del bilancio europeo, costretto i paesi a riaprire le frontiere per i beni sanitari, lanciato una serie di nuove iniziative per affrontare la crisi. Si noti che anche in queste istituzioni europee ci sono naturalmente conflitti, dovuti a posizioni politiche diverse come a nazionalità diverse, ma comunque di fronte alla crisi hanno saputo superarli e muoversi rapidamente.

 

L’Europa dei paesi invece ha dato il peggio di sé. I politici nazionali si sono scontrati ferocemente, ognuno battendo i pugni sul tavolo e difendendo il proprio punto di vista in lunghe e estenuanti trattative, con rimandi, interruzioni, ripensamenti fino al faticoso compromesso del 9 aprile, che dovrà essere ulteriormente precisato dal Consiglio Europeo della prossima settimana. Naturalmente, molto di questo, come direbbe il commissario Montalbano, è puro “teatro”; urla e posizioni ideologiche estreme che servono soltanto a far contenta la propria opinione pubblica nazionale e placare i propri sovranisti interni e le opposizioni. Anche il compromesso finale è scritto in modo tale che ciascuno abbia la propria bandierina da sventolare al ritorno a casa. Il problema è che questo meccanismo decisionale, oltre a produrre generalmente soluzioni tardive e sub-ottimali, ha il difetto di porre i media e le opinioni pubbliche nazionali in conflitto le une con le altre, esacerbando le differente esistenti e rimettendo in discussione lo stesso progetto europeo. Indipendentemente dai contenuti dell’accordo, i risultati sono un disastro in termini di messaggio politico.

 

Se il progetto europeo vuole avere un futuro, è sempre più evidente come non si possa più andare avanti così. Sarebbe molto meglio, per tutti, compresi i paesi del nord Europa, attribuire una solida base tributaria al bilancio europeo o a quello dell’eurozona, dare più poteri su questo al Parlamento europeo, consentire alla Commissione di emettere debito se necessario e lasciare all’Europa sovranazionale il compito di risolvere i problemi collettivi. Per esempio, nel caso della crisi presente, anche risorse tributarie limitate ma permanenti a livello europeo avrebbero consentito di sollevare risorse ingenti nell’immediato, emettendo titoli a lunghissima scadenza e a tassi bassissimi grazie al sostegno della BCE. I singoli paesi avrebbero poi potuto aggiungere i propri interventi a questa cornice europea. L’esperienza di questa crisi mostra come si tratti di una riforma istituzionale non più eludibile: il metodo intergovernativo semplicemente non funziona.

 

Il merito

E veniamo ai contenuti dell’accordo raggiunto all’Eurogruppo del 9 Aprile. Prima, una premessa, che dovrebbe essere ovvia, ma vista la confusione esistente nei media italiani e nella testa di molti politici nostrani è bene ripeterla.

Il problema che confronta l’Europa al momento è che benché lo shock indotto dal virus sia esogeno e simmetrico, i paesi si trovano in condizioni molto diversi nell’affrontarlo. In particolare, molti paesi si trovano già con un debito molto elevato, tanto che potrebbero avere difficoltà a finanziare il debito ulteriore necessario per affrontare la crisi. L’Italia (assieme forse alla Grecia) è messa peggio di tutti, perché ad un debito molto elevato accompagna anche una crescita strutturalmente molto bassa. Ma è in discreta compagnia, perché molti altri paesi, (diciamo, il club mediterranee, inclusa la Francia) si trovano in condizioni non molto migliori.

 

La Bce sta dando una mano importante nell’immediato, ma per motivi di mandato, e anche perché altrimenti non potrebbe più adempiere ai propri compiti di garantire il valore della moneta, non può garantire di sostenere per sempre l’eccesso di debito. Viceversa, molti paesi del nord Europa sono in condizioni molto migliori e potrebbero finanziare il debito ulteriore generato dalla crisi molto più facilmente. Perché l’Unione Europea vada avanti è dunque necessario che i secondi paesi si facciano carico in qualche misura dei primi, in una forma o nell’altro. Almeno in qualche misura, questo è vantaggioso anche per i paesi del nord Europa, perché un collasso o una forte recessione dei paesi del sud avrebbe effetti negativi anche sulle loro economie, rimettendo in discussione moneta e mercato unico. In più, molti dei benefici offerti dall’Europa hanno caratteristiche di beni pubblici, che verrebbero persi in caso di frattura dell’Unione Europea o dell’area dell’euro.

 

I vari politici nazionali impegnati nei dibattiti europei queste cose le sanno benissimo, o se non le sanno loro (il collasso nella qualità della classe politica non è solo un problema italiano), le conoscono i funzionari che li consigliano. Il problema per i paesi del nord è come trovare una soluzione che, da una parte, sia vendibile alle proprie opinioni pubbliche, e dall’altra eviti che il sostegno per la crisi si trasformi in un bail out dei debiti complessivi dei paesi del sud. Di fronte a questa situazione, qual è dunque il compromesso trovato nella riunione dell’Eurogruppo del 9 Aprile e quali i possibili vantaggi per l’Italia? In breve, il compromesso si articola (tra gli altri) nei seguenti punti:

  1. Rafforzamento del Banca Europea degli Investimenti. La Bei già svolge attività di finanziamento e di garanzia a favore delle imprese europee. L’Eurogruppo ha accolto la proposta, avanzata dalla Bei stessa, di potenziarne l’attività attraverso una garanzia, prestata dagli stati membri, di 25 miliardi di euro. Questa dovrebbe consentire alla Bei di mobilitare 200 miliardi di nuovi prestiti a favore delle PMI europee. Il governo italiano, come altri, si è già mosso nella direzione di porre la garanzia pubblica sui nuovi prestiti bancari alle imprese (anche grazie all’allentamento delle norme europee sugli aiuti di stato). I fondi BEI potranno costituire una utile integrazione ai fondi già stanziati a questo scopo a carico dei bilanci nazionali, soprattutto qualora i plafond già costituiti dovessero rivelarsi insufficienti. 
  2. Utilizzo del Meccanismo Europeo di Stabilità per le spese sanitarie, senza condizionalità, per una somma fino al 2% del pil. Su questo punto è stata sostanzialmente accolta la posizione dell’Italia e di altri paesi “mediterranei”, che puntava a sospendere la condizionalità del Mes a fronte della crisi in corso.  È vero che ciò è limitato alle spese (direttamente e indirettamente) legate al comparto sanitario, però è anche vero che per esempio si tratta per l’Italia di circa 36 miliardi di prestiti a cui il paese potrebbe accedere a tassi d’interesse assai vantaggiosi rispetto a quelli di mercato e senza alcun controllo in stile “Troika”, se non sull’effettivo utilizzo dei soldi a fini sanitari. Ci sono dettagli ancora da capire per valutarne appieno i vantaggi (per esempio, sulla durata dei prestiti) ma sarebbe un errore rinunciare a questo strumento a priori, solo per far contenti i nostri sovranisti interni e esterni alla maggioranza, come pure pare voglia fare il nostro governo. I costi della rinuncia saranno pagati dai cittadini italiani. 
  3. Sure. Si tratta di un fondo europeo, di nuova istituzione, destinato a finanziare, attraverso dei prestiti, le iniziative dei paesi membri a favore dei lavoratori colpiti dalla crisi economica in corso, in collaborazione con i sistemi nazionali di assicurazione contro la disoccupazione (CIG). La cifra destinata a questo scopo è significativa: 100 miliardi a livello europeo, grazie all’utilizzo del bilancio della UE, integrato con garanzie degli stati membri per 25 miliardi. 
  4. Recovery Fund. L’accordo prevede di avviare i lavori per la creazione di un fondo europeo, destinato a finanziare le iniziative per la ripresa dell’economia europea, colpita dalla crisi economica generata dalla pandemia. Il finanziamento dovrebbe derivare dal bilancio UE e da strumenti finanziari “innovativi”. Il fondo dovrà essere temporaneo e destinato ad affrontare l’emergenza economica creata dal blocco delle attività. Non c’è un numero preciso nel comunicato, ma le dichiarazioni parlano di un fondo da almeno 500 miliardi. Un ruolo centrale dovrebbe essere giocato dal bilancio pluriennale 2021- 2027 della UE (Multi-annual Financial Framework- MFF) in corso di approvazione, che dovrà essere adattato allo scopo.

 

Complessivamente, si dovrebbe trattare di un insieme di interventi per oltre 1000 miliardi di euro, magari non sufficiente, ma certo non piccolo, anche perché si accompagna a tutte le altre misure già decise a livello nazionale dai singoli paesi. Le prime tre iniziative sembrano anche piuttosto ben delineate, anche se naturalmente mancano ancora una serie di dettagli operativi; la quarta sembra più una affermazione di principio. Dal punto di vista dell’Italia, o più in generale dei paesi del sud Europa, non bisogna sottovalutare i risultati raggiunti, per più ragioni.

 

  1. I primi tre strumenti prevedono di fatto l’emissione di strumenti di debito comune, garantiti dagli stati membri nel loro insieme, emessi rispettivamente dalla Bei, dal Mes e dalla Commissione Ue. È particolarmente nuovo e originale il sistema previsto per il finanziamento del Sure (nella proposta della Commissione), dove a fronte di garanzie ulteriori dei paesi per 25 miliardi, sarà la Commissione stessa a indebitarsi utilizzando il bilancio europeo come garanzia, finanziando poi i paesi. È un meccanismo che potrà essere usato in futuro per finanziare anche altre spese, a cominciare dagli investimenti europei. 
  2. Naturalmente, tutti questi titoli di debito sono a tutti gli effetti degli “eurobond”, nel senso di garantiti da tutti i paesi, anche se nessuno li può esplicitamente chiamare con questo nome per non destare l’ira dei sovranisti del nord Europa, amici dei sovranisti del sud.
  3. L’apertura alla proposta francese del Recovery fund, che anche potrebbe essere finanziato con qualche forma di eurobond, appare solo di principio per il momento. Si tratta tuttavia di una apertura importante sul piano politico, di fronte ad un argomento, quello appunto del finanziamento con l’emissione di titoli di debito comune, che finora ha rappresentato un tabù per i paesi del nord Europa. L’espressione strumenti finanziari “innovativi” serve appunto a nascondere questa possibilità. È dunque un interessante inizio: bisognerà vedere se e come a questa apertura seguiranno i fatti.

      

      

    *Angelo Baglioni è professore di Economia politica, Università Cattolica di Milano

    Massimo Bordignon è professore di Scienza delle Finanze, Università Cattolica di Milano
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