(foto LaPresse)

Nella cantina di Biden accade qualcosa di imprevisto

Paola Peduzzi

La forza della voce e la fatica che non si vede

La cultura del garage che ha occupato il nostro immaginario negli anni della esplorazione internettiana fino a stufarci ora ha avuto un nuovo, imprevedibile guizzo. A regalarci questo sussulto è stato Joe Biden, candidato dei democratici americani alla presidenza, che ha reso la sua cantina il quartier generale non soltanto della sua campagna elettorale ma anche della politica del buon senso, del confronto, del dialogo. Come si sa Biden è estremamente in ritardo dal punto di vista digitale rispetto alla corazzata trumpiana e a prima vista il confronto tra il sottoscala di Biden, per quanto rimesso così a posto da sembrare istituzionale (con tanto di rialzo sotto le gambe della scrivania), e il pulpito di Donald Trump con i sigilli della Casa Bianca pare impietoso. Biden, che si porta addosso la ragionevolezza ma anche quel tremendo “Sleepy Joe” che gli ha appioppato Trump, deve rincorrere dalla cantina il comizio quotidiano di Trump, quell’aggiornamento sul coronavirus che poi è diventato l’appuntamento giornaliero con il pubblico americano e che in queste ultime ore è un orpello di cui lo stesso presidente vuole liberarsi in fretta. Trump si stufa di tutto, come sappiamo, è volubile e capriccioso, ma il problema è che il pubblico si stava stufando di lui e delle sue dichiarazioni pericolose, così ora Trump ha fretta di chiudere, di cambiare format, di trovare un’altra formula per sfruttare elettoralmente il suo ruolo e questa campagna senza le persone. Biden rincorre, ha un ritardo molto grande in termini strutturali e organizzativi, ma ha impostato questa rincorsa a modo suo: senza affanno, senza far vedere la fatica. 

 

 

La formula dell’ex presidente è sempre la stessa: mostrarsi vicino, empatico, presente, gentile, lontano dagli urli e dai calcoli. Senza occhi in cui specchiarsi, senza appigli dalle vite degli altri, per Biden è molto più difficile, ma poi è arrivata la cantina, la possibilità di impostare un nuovo dialogo con gli americani, in un momento in cui gli stessi americani sono meno distratti, cercano gli occhi, e che siano occhi sinceri, calmi, rassicuranti. Così Biden è ripartito, con il suo ritmo non scattante ma costante, prima di tutto parlando di sé e della sua routine nei giorni dell’isolamento: sveglia alle 8, un po’ di ginnastica, uno snack (“quando non so bene cosa mangiare, vado sul sicuro: panino con burro di noccioline”), poi studio, lavoro e un tante chiacchiere utili. Queste conversazioni sono un podcast che è partito malino – nemmeno Biden ci credeva – e che appuntamento dopo appuntamento è diventato sempre più importante. Si intitola “Here is the deal with Joe Biden” e quando è iniziato è stato stroncato da molti commentatori: non si arriva in fondo, e forse nemmeno Biden arriva in fondo. All’inizio di aprile, Will Leitch si è premurato di dare all’ex vicepresidente cinque consigli in un articolo sul magazine New York, che probabilmente sono stati ascoltati: miglioramenti tecnici e postura presidenziale. Le ultime conversazioni di Biden sono interessanti e informali, parla di leadership con lo storico e saggista Jon Meacham (c’è un passaggio molto bello sull’imperfezione dei leader), parla degli uomini che si ammalano e diventano insopportabili con la governatrice Amy Klobuchar il cui marito ha avuto il Covid, parla di fede con il reverendo Barber. Tra le parole si ritrovano quegli occhi che tutti dal nostro isolamento andiamo cercando, e Biden è riuscito a trovare un modo suo, riconoscibile, per emergere tra le urla del trumpismo. Tanto che ora molti democratici lasciano intendere che sarebbero molto felici di essere invitati da Biden. In fondo da questa cantina si deve definire la leadership democratica che sfiderà Trump (ieri è arrivato l’endorsement della speaker Nancy Pelosi), si dovrà scegliere anche la vicepresidente, e la rosa si allarga molto se si considerano i colloqui che Biden sta facendo con alcune deputate e senatrici. E nella costruzione di questa alternativa al trumpismo ci sono gli elementi più semplici, più immediati: una stanza in cui ritrovarci, la nostra voce.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi