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Una rivoluzione per combattere la paura

Marco Bentivogli

La maggiore tolleranza per atteggiamenti dirigisti non durerà in eterno e va sfruttata per modernizzare il paese, non per ritorni al passato. E’ ora di liberarci dalla politica dei capri espiatori e dalla gabbia del lavoro ideologizzato. Manifesto per innovare l’Italia

L’isolamento imposto dal lockdown dovrebbe favorire una rieducazione alla pazienza, al valore della libertà. Su quest’ultima il primo impatto è parziale, riguarda le limitazioni nella propria percezione sociale dello spazio e talvolta del tempo. Questi giorni cattivi possono essere occasione di riflessioni profonde di senso su tutto ciò che consideriamo “normale” nella nostra esistenza. In questo secondo caso bisogna recuperare, al di là delle nozioni di spazio e di tempo che ci sono familiari, una vera dimensione di “libertà interiore”, che ci consenta di coltivare le migliori occasioni in grado di generare discontinuità utili a dare senso alla nostra esistenza. Questa libertà è l’unica che permette di rivoltare le zolle e avviare un tempo di semina fruttuosa. Pensare e provare a progettare e magari creare le condizioni del futuro che vogliamo.

 

Per questo le task force e i comitati tecnico-scientifici sono utili a indicarci le prescrizioni per il breve e medio periodo. La nostra attenzione va alle distanze e alle mascherine e si spinge poco oltre. Invece è proprio necessario ragionare sulla ripresa passando dal “dopo” all’“oltre”. Non si tratta semplicemente di effetti non intenzionali dell’azione umana. E’ in corso una banalizzazione del “giorno dopo” dettata dalla precisa strategia che vuole che nulla cambi.

  

Non possiamo crogiolarci nel “ritorno” alla normalità quando quella normalità è stata la causa dei nostri problemi. La vecchia “normalità” è stata la causa di questo disastro e ne serve una profondamente nuova se vogliamo bene alle persone e a questa terra.

 

Non solo, da tempo avevamo contezza degli effetti delle tre grandi transizioni, demografica, digitale e climatico-ambientale. Eravamo in ritardo, la pandemia sarà un ulteriore acceleratore di questi cambiamenti.

 

L’emergenza sanitaria avrà sul contesto del lavoro effetti che vanno oltre il breve periodo. Capire in anticipo questi mutamenti consente a tutti di adattare strategie e comportamenti e minimizzare i rischi.

  

In tutto il mondo si assiste a un “rally round the flag”, stringersi intorno al leader. Ma finita la fase del sentiment (parola orribile) favorevole di oggi, si dovranno produrre risultati e servono idee chiare e scelte coerenti, ora. La maggiore tolleranza popolare di un atteggiamento “dirigista” dei governi non durerà in eterno e va sfruttata per modernizzare il paese e non per assurdi ritorni al passato.

 

L’innovazione si nutre di discontinuità

E’ veramente triste che, ancora oggi, come nella storia degli ultimi tredicimila anni, le malattie e le guerre siano state i principali acceleratori dei processi d’innovazione. E’ questa la tesi che lo studioso Jared Diamond, sviluppa in “Armi, acciaio e malattie” pubblicato da Einaudi ormai quasi trent’anni fa. In altre parole, la storia non è un processo lineare ma si nutre di discontinuità: i conflitti bellici, le epidemie e i genocidi. E’ triste che siano necessarie queste esperienze collettive drammatiche, ma l’umanità raramente non ha bisogno di queste tragedie per capire i propri limiti.

 

E stavolta il rischio è che non si comprendano sino in fondo i nostri vizi, riti, ruoli e la loro potenzialità distruttrice nei confronti di tutte le energie positive.

 

La sostenibilità delle produzioni

Abbiamo scoperto che, anche nell’impedire la propagazione dei virus, il mondo chiuso, i confini, l’autarchia sono forti quanto la linea Maginot allo scoppio della Seconda guerra mondiale. I sistemi economico-produttivi si sono sentiti più vulnerabili con un colpo rapido, durissimo e violento, concentrando in due mesi la stessa forza distruttiva di una crisi economico-finanziaria che perdura dal 2008.

 

Il rischio è che alla distruzione del 25 per cento di tessuto produttivo-industriale nello scorso decennio si accompagni un’analoga perdita a causa degli effetti della pandemia proprio sull’economia reale.

 

Non lo ha raccontato nessuno, ma l’interruzione della fornitura dalla Cina è arrivata almeno un mese prima dello scoppio della pandemia nel nostro paese. Imprese che, in molti casi, non conoscevano neanche le loro appendici finali lungo la filiera della propria supply chain e che credevano di essere “China free”.

 

Alla globalizzazione i parolai danno responsabilità che non ha e negano meriti che invece le sarebbero dovuti. E la globalizzazione non finirà con la pandemia.

 

Piuttosto, bisognerà fare in modo che si apprenda una nuova grande lezione: si chiama sostenibilità delle filiere e delle produzioni. Ma attenzione, non nella visione anti industriale e decrescista, che rappresenta semmai un altro virus da battere. Le aziende dovranno avere consapevolezza di tutta la loro filiera e investire nella loro sostenibilità per rafforzarsi sul mercato, non solo per ragioni ambientali e sociali. Le infrastrutture di blockchain consumano energia ma danno grande visibilità e tracciatura a questi aspetti. Limitare su base regionale (continentale) le filiere può avere senso solo per alcune filiere strategiche.

 

Per tutto il resto le filiere globali sostenibili dovranno essere il futuro della nostra economia più forte e solida e meno vulnerabile a shock esterni: pandemie, instabilità politiche, guerre, disastri climatici e idrogeologici. Negli investimenti bisognerà privilegiare aziende e paesi che avranno più cura di questi aspetti.

 

Più veloce la trasformazione di lavoro e produzione

Serve un grande piano di reskilling. Il lavoro è già cambiato, non è cambiato tutto ciò che c’è attorno a esso. Le categorie novecentesche del lavoro e delle produzioni sono una zavorra. Non spiegano più nulla e ci fanno solo sbagliare politiche. Serve una nuova contrattualistica che abbandoni il solo scambio lavoro-salario e costruisca reciprocità tra progetto di lavoro e benessere delle persone. Non sono solo parole, è una rivoluzione copernicana per tornare in campo.

 

La grande trasformazione digitale rende meno rigido lo spazio (luogo) e il tempo (gli orari) di lavoro. Serve una nuova visione per riprogettare il lavoro perché sarà necessario ripensare il lavoro stesso e l’impresa, le sue gerarchie, il suo funzionamento, il suo modello di business. 

Il Covid sarà un acceleratore del ricorso ad automazione e tecnologie 4.0. Bisogna avviare in fretta un gigantesco piano di reskilling (riqualificazione professionale) per lavoratori e disoccupati. Serve il diritto soggettivo alla formazione in tutti i contratti di lavoro (anche a tempo determinato) e considerarlo alla stregua di un diritto umano. Serve una nuova formazione, adattiva alle persone e non ai cataloghi dei centri di formazione.

 

La riscossa del lavoro manuale 4.0

Il nostro paese aveva dimenticato il valore del lavoro manuale. Ora che ci accorgiamo che non tutti i lavori sono remotizzabili, è il momento della riscossa del nuovo lavoro manuale, che va ibridato con le nuove tecnologie. Questa è la strada su cui puntare e investire.

 

Questi mesi ci hanno ricordato molte cose: innanzitutto l’importanza del personale sanitario, dei medici e di tutti gli altri che non hanno mai smesso di lavorare per salvare la vita delle persone. Allo stesso tempo si è vista con chiarezza l’importanza del lavoro industriale. Quanto conti per mandare avanti l’economia del nostro paese. Il lavoro industriale, specie nelle versioni di “ibridazione” tra lavoratori e macchine intelligenti, rende ancora più importante quella manualità sapiente, tanto da assegnare valore alle persone e renderle meno sostituibili.

 

Ideologizzare il lavoro produce disoccupazione e lavoro povero

Inserire il “lavoro nero” tra le categorie da sussidiare è una vergogna. E’ lo stato che depone le armi, che fa finta di non sapere che dietro quel lavoro c’è lo sfruttamento dei poteri criminali.

 

Bisogna battere il paese che vive di totem, divinizzando princìpi che tradisce ogni minuto. Il paese che ama la burocrazia, che ha abolito i voucher, strumenti troppo semplici: meglio il lavoro nero e la disoccupazione.

  

Ecosistemi per rendere sostenibile l’accelerazione

Se pensiamo alla pandemia, ai cambiamenti del lavoro e delle produzioni, non esiste sviluppo se non all’interno di una nuova concezione ecosistemica del territorio. L’accelerazione delle transizioni può essere resa sostenibile in quest’ottica.

 

Pensate alle grandi città, all’inutile, costoso e inquinante esodo quotidiano periferia-centro e viceversa. Nelle periferie chiudono tanti esercizi commerciali. Pensiamo a città cosiddette “policentriche” in cui utilizzare gli spazi che si liberano per realizzare hub del lavoro e della conoscenza. Postazioni ben distanziate, con buona connessione, caffè e punti di ristoro, piccole sale per riunioni o occasioni di formazione. Spazi dove ricostruire relazioni virtuose, tra smart-worker, professionisti, studenti.

 

Il territorio attrarrà lavoro e sarà garanzia di sostenibilità, con una nuova capacità di semplificare la vita alle persone, di rendere agevoli i percorsi di apprendimento e di innovazione.

 

Sconfiggiamo la burocrazia!

E’ lo slogan del momento. Di quella politica che alleva capri espiatori. E’ proprio l’incompetenza e l’inesperienza di troppi politici a consegnarli nelle mani dei mandarini ministeriali, di pseudotecnici o di valide task force, ottime per scaricare su di loro le proprie responsabilità.

 

L’osservatorio di Cottarelli e Galli ci dice che le pmi spendono ogni anno 31 miliardi nella compilazione di moduli. Uno stato pesante e con iter lunghi e farraginosi non è garanzia di maggiore possibilità di controllo. E’ piuttosto l’esatto contrario.

 

Il nostro è un paese in cui siamo tutti formalmente contro la burocrazia, le ritualità. A patto che non mettano in discussione i nostri ruoli e poteri. Abbiamo visto che la burocrazia in questi mesi ha prodotto morte, ritardi, danni irreparabili. I “signori del tempo perso” si nutrono di iper-regolamentazione, di proliferazione di adempimenti formali. Una megastruttura in simbiosi con il paese del “vi faccio causa”, o che ravvisa in ogni novità “un danno erariale”, che prospera sulla certezza del contenzioso e dei ricorsi, ci paralizza da anni. Carlo Cottarelli sta elaborando assieme all’Osservatorio sui conti pubblici italiani e il Think Tank Nord Est “Sconfiggiamo la burocrazia” proposte semplici per semplificare il paese. Vedremo se i proclami contro la burocrazia di molti politici resteranno tali. Cancellare la ragnatela di cui la politica (e non solo) è prigioniera è un lavoro decisivo. Per far questo, come dice l’ottimo Stagnaro, non servono minacce ma riforme coraggiose.

 

Riforme vere

Le riforme sono come gli accordi sindacali veri. Né le une né gli altri producono effetti progressivi se ognuno non sacrifica qualcosa. L’ossessione del consenso accorcia l’orizzonte di ogni gruppo dirigente al quotidiano. Per una “nuova normalità” bisogna guardare oltre. La retorica sul “bene comune” lo ha fatto confondere con la somma di ciò che è “bene” per chi è al potere.

 

Serve un progetto capace di indurre un impegno collettivo che scomodi l’Italia pigra della rendita. Che comprenda che si esce da questo disastro puntando sui lavoratori. Serve un popolo che desideri crescere investendo sul dovere della formazione e dell’informazione di qualità. Che si ribelli a una tv, a social e giornali invasi da cialtroni.

 

In fondo, fino a qui, ho cercato di fare semplicemente considerazioni di banale buon senso. Il nostro paese vive di proroghe e modelli sbagliati. Penso che se usciremo dall’emergenza come vi siamo entrati, non solo avremo sprecato un’altra occasione, ma saremo per sempre sconfitti.

 

So bene che mentre c’è chi si rimbocca le maniche per costruire soluzioni nuove e un mondo più sostenibile e sicuro, c’è una parte del paese, purtroppo molto più forte, che usa la quarantena per affilare i denti e lavora con ostinazione giorno e notte perché poteri, architetture sociali ed economiche tornino tutte al loro posto con il cordone sanitario della burocrazia a proteggere i vecchi status quo.

 

Abbiamo imparato che i ritardi possono uccidere persone, lavoro, imprese. Ma anche mettere in mora, ancora una volta, le energie (tante) migliori del paese.

 

Avete visto nelle aziende, nelle città quante persone si sono mobilitate verso chi è rimasto più in difficoltà? Servono gruppi dirigenti che la smettano di mortificare l’energia dell’Italia migliore e che su di essa costruiscano piattaforme di ricostruzione civica.

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