Lo scrittore americano William Burroughs

Parola, il virus 1971

Edoardo Camurri

Il linguaggio e la rivoluzione tecnologica elettrica. Burroughs aveva una terapia antivirale

Ogni cosa si sta crepando. Ed è un gioco di parole osceno, salvato malamente soltanto da quel “si” riflessivo che indica non il morire di ogni cosa, ma lo sgretolarsi e quindi l’intravedere ciò che si manifesta al di là della crepa. I pensieri e i sentimenti, che le parole traducono, oggi sono più contaminati del solito e il grande scrittore William Burroughs intendeva una cosa del genere quando, negli anni Settanta, chiedeva dieci anni di tempo e un miliardo di dollari per smantellare il virus – perché il linguaggio, diceva, si comporta esattamente come un virus – moltiplicato e aggravato dalla rivoluzione tecnologica elettrica: la Macchina algoritmica indagata oggi da 2666. Scriveva: “La mia teoria generale fin dal 1971 è stata che la Parola è letteralmente un virus, e che non è stata riconosciuta come tale perché ha raggiunto uno stato di relativamente stabile simbiosi con il suo ospite umano; vale a dire, il Virus Parola si è imposto così saldamente come parte accettata dall’organismo umano da poter adesso sghignazzare dietro ai virus gangster come la varicella e spedirli all’Istituto Pasteur. Ma la Parola porta chiaramente l’unica caratteristica di identità del virus: è un organismo senza altra funzione interna che quella di replicare se stesso”. Lo “è” d’identità, per esempio, è il virus che ci condanna a essere un animale, un corpo, e implica una condizione che agisce subliminalmente come la parodia di un imperativo categorico: “Se vedete la relazione dell’io con il corpo – scriveva ancora Burroughs – come la relazione di un pilota con la nave, vedete in pieno la forza devastante del comando della mente reattiva di essere un corpo. Se dite al pilota di essere l’aereo, allora chi guiderà l’aereo?”. Con l’aiuto della copula del verbo essere, ogni frase lega una cosa a un’altra, secondo un ordine precostituito, una gerarchia, la manifestazione di un Potere virale che si comporta seguendo un ordine magico, fatto di influssi e di legature. Ed è per questo che la terapia antivirale di Burroughs presuppone una rottura dell’ordine del linguaggio, la creazione di un ambiente ostile al suo propagarsi, la quarantena del pensiero lineare attraverso il taglio, ed è un linguaggio da strategia militare, delle linee di associazione del pensiero. La sua tecnica del cut-up, piegare e tagliare a pezzi pagine di un testo per rimetterli insieme in combinazioni a montaggio secondo frequenze diverse e magicamente ricorsive, era esattamente questo: lacerare il velo di Maya del linguaggio e del pensiero per accedere a una dimensione diversa; intravedere mondi possibili crepando il muro che ci separa dalla liberazione, decodificare e ricodificare l’Rna della Parola che si propaga con rinnovata forza attraverso la Macchina elettrica. In questo Burroughs partiva dalle rivelazioni di Marshall McLuhan che, pochi anni prima, nel 1967, aveva pubblicato uno strano volume, Il medium è il massaggio, in cui si leggeva: “I dispositivi elettrici d’informazione per una sorveglianza universale e tirannica dalla culla alla tomba stanno causando un dilemma molto serio tra la nostra richiesta di privacy e il bisogno di sapere della comunità. Le vecchie idee tradizionali di pensieri e azioni come privati e isolati – modelli delle tecnologie meccanizzate – sono minacciate molto seriamente dai nuovi metodi di acquisizione istantanea elettrica delle informazioni e dalle banche dati elettricamente computerizzate”; Burroughs immaginava così la necessità di soldati capaci di entrare dentro questa macchina per manometterla selvaggiamente: “Ormai in possesso della colonna sonora e della sequenza delle immagini della macchina di controllo – scrive in un passaggio del suo romanzo La macchina morbida – ero in condizione di smantellarla. Dovevo soltanto mescolare l’ordine delle registrazioni e l’ordine delle immagini e il mutato ordine sarebbe stato assemblato e reimmesso nella macchina”.

 

Quando oggi si leggono le riflessioni dei grandi filosofi digitali, ci rendiamo conto che la situazione è accelerata. Lo studioso cinese Yuk Hui ci spiega che la Macchina algoritmica ha sostituito l’uomo come centro di ogni operazione cognitiva e emotiva diventando il soggetto di un’epoca completamente nuova basata sulla ripetizione di un tempo circolare dettato dalla sua nuova logica. Discorso che 2666 continuerà a esplorare. Ma intanto l’infezione virale procede con maggiore aggressività ed è necessario riattivare le potenzialità ancora inespresse che si possono trovare all’interno della storia delle idee per farle rivivere sotto altre forme, morfe, remof, mofer, frome, fermo e oggi 2666 si inceppa così; sentendo l’inadeguatezza di ogni altra riflessione. E allora, secondo un’operazione di cut-up, 2666 propone una pagina metafisicamente abissale, che non c’entra niente con quanto scritto sinora ma che si affaccia in quel “ogni cosa si sta crepando” con cui abbiamo iniziato l’articolo, invocando il taglio delle linee di associazione del pensiero. Si tratta di una lettera che, nel 1978, il filosofo e il rabbino Jacob Taubes scrisse al grande giurista e teorico dello stato d’eccezione Carl Schmitt. Schmitt si era compromesso con il nazismo e Taubes gli scrive: “Proprio in quanto arciebreo so trattenermi dal pronunciare una condanna. Poiché in tutto quell’indicibile orrore almeno una cosa ci è risparmiata. Non avevamo scelta: Hitler ci aveva eletti a nemico assoluto. Ma dove non c’è scelta non c’è neanche giudizio, tanto meno nei confronti degli altri”.

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