Barbara D'Urso e Matteo Salvini (foto LaPresse)

La politica travolta dal trash

Andrea Minuz

Ridotti i parlamentari non resta che tagliare i talk-show: non servono più. S’avanza “Non è la D’Urso” e tutto il dibattito finisce in vacca. Salvini e Di Maio come le coppie di “Temptation Island”

Con la riduzione dei parlamentari si potrebbero tagliare anche i talk-show. Ma i politici diminuiscono e i talk-show aumentano, si reinventano e anzi attraversano una fase di sfrenata creatività e contaminazione “fusion”. L’“autogolpe” del Capitano ha fatto decollare lo share estivo e la telepolitica straripa, esonda, si sintonizza con gran tempismo sui nuovi assetti del Conte bis, provando a rendere manifesto il contrasto tra il prima e l’adesso. “Disdici quando vuoi”. Lo slogan con cui canali e piattaforme promuovono il proprio abbonamento, da Sky a Netflix, da Dazn a Now Tv, è la frase che più rappresenta, disegna, definisce uno stile di vita e un’epoca e una politica, come la nostra, attraversata da granitiche incertezze, obblighi evanescenti e rivolgimenti repentini. “Disdici quando vuoi” meglio della “società liquida” di Bauman.

 

La televisione, metro e misura di tutte le cose della politica, corre ai ripari. E’ sempre più difficile trovare due avversari da far scontrare

Appuntamenti, cene, follower, chat, contratti di lavoro o di governo e giuramenti e schieramenti e gruppi misti e nuove stagioni di alleanze politiche. Nulla che non si possa “disdire quando vuoi”. Giacchetti vota sì al taglio dei politici ma solo per raccogliere le firme e avviare un referendum che li riporti al più presto in parlamento; Delrio spiega il perché e il per come era sempre stato contrario alla proposta, finché, giusto ieri l’altro, scopre che “il M5s ha una cultura di governo”; Dario Franceschini ha già il copyright di una frase memorabile, riciclabile all’infinito e, come si dice in questi casi, buona per tutte le stagioni: “Di Maio? E’ uno che studia, sono colpito”.

 

Renata Polverini, un tempo icona della Roma assai “de destra”, confluirebbe adesso, con gran convincimento, nelle fila del progetto “Italia Viva”; Pietro Grasso da Leu, già procuratore antimafia, usa un termine provvidenziale, dagli echi manzoniani, per la complessa vicenda umana e mafiosa di Giovanni Brusca e la sua delicata torsione giuridica: “Non è mica come Riina, il ravvedimento c’è stato”, ed è subito Monastero di Monza (“caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, dopo molto infuriare e dibattersi s’era ravveduta, s’era accusata”). La televisione, metro e misura di tutte le cose della politica, corre quindi ai ripari. E’ infatti sempre più complicato dare senso allo scontro, al dibattito, al faccia a faccia tra politici, come ai beati tempi del bipolarismo. Sempre più difficile inventarsi due acerrimi nemici che non si mettano insieme il giorno dopo. Sono gli effetti del Conte bis sui talk-show, registrati col solito tempismo perfetto dalla trash television di “Non è la D’Urso”, programma non più archiviabile nelle vetuste categorie del “gossip”, ma sempre più decisivo nella costruzione dell’immagine dei leader e nella distruzione del discorso politico.

 

“Non è la D’Urso” dà concretezza all’idea che ormai per lo spettatore sia più credibile uno scontro tra Salvini e Asia Argento

Se dei politici non si fida più nessuno, se l’antagonista di oggi può essere il compagno di viaggio di domani, allora non ha più molto senso invitarli in tv per metterli uno contro l’altro. E’ un po’ questa l’idea alla base della nuova edizione del format di Barbara D’Urso e della sua marcata svolta politica, con l’ospitata ormai tradizionale di un politico chiamato a cimentarsi con le “sfere”, vale a dire cinque “vip” seduti dentro un ovetto bianco. Politici contro vip. “Non è la D’Urso” porta alle estreme conseguenze anzi dà una certa concretezza all’idea che ormai sia più credibile agli occhi dello spettatore uno scontro tra Salvini e Asia Argento che spiega nei dettagli come mai ha scritto “merda” su Twitter rivolgendosi proprio all’ex ministro dell’Interno, anziché Renzi e Di Maio che fingono di duellare per il bene del paese. D’altronde, come disse Di Maio rifiutando la proposta di Giletti che lo invitava a un faccia a faccia con Salvini: “quello che ci dovevamo dire ce lo siamo detti”. Il talk politico sceneggiato si costruisce sul gossip. Ospite da Barbara D’Urso, Giorgia Meloni sbotta all’improvviso contro i vip che la incalzano: “Non sono venuta qui a fare il pagliaccio!” Bene, brava, bis. Solo che lo dice in una trasmissione in cui è incorniciata tra un’adepta di Panzironi, guru del metodo “Life120” che ha rimpiazzato il vecchio dottor Lemme, che spiega: “grazie a Panzironi mi si è allungata la gamba di tre centimetri”, e un servizio sui “vip che non arrivano a fine mese”.

 

La povera Giorgia Meloni che accetta di andare da Barbara D’Urso prova a tirare fuori i suoi migliori ritornelli sulle elezioni, gli italiani traditi e l’Europa che ci umilia ma presto viene risucchiata in un dibattito sui suoi manifesti photoshoppati e neanche un fact-checking a spiegarci chi ha ragione. Epico lo scontro con Aida Nizar. La show-girl spagnola, celebre in Italia per la partecipazione al GF e per aver detto (sempre dalla D’Urso) di essersi “masturbata durante un reality” (ma sudamericano) e solo per “dimostrare che uomini e donne possono godere anche da soli” si è lanciata con la consueta sguaiataggine contro Giorgia Meloni al grido di “tu non sei laureata! tu non parli le lingue!”. Si sfociava quindi in un surreale duello metà in spagnolo, metà in inglese, con la leader di Fratelli d’Italia che replicava con voce robotica, “if-you-want-I-can-answer-tambien-hablo-español”, anche se il sottopancia del “servizio” diceva: “gli italiani sono veramente razzisti?”.

 

Le coppie che divorziano si parlano con gli avvocati, Salvini e Di Maio si parlano attraverso i talk-show. I tweet e il climax

L’oltraggio alla Patria, da cui parte tutto, era invece un video di quest’estate con la Nizar che si tuffa nella Fontana di Piazza Navona (seguì richiesta di espulsione da parte di Rita Dalla Chiesa e “un anno di lavori socialmente utili” proposto da Giorgia Meloni che incassava tuttavia l’appoggio di Katia Ricciarelli, ancora turbata dal rimpasto di governo: “Mi sento defraudata dall’arrivo del Conte bis”). “Non è la D’Urso” vanifica il confronto tra politica e giornalismo che pure si prova a mettere in piedi in altre trasmissioni, anche se nella chiave della drammatizzazione e della commedia. Ma il trash, il gossip non sono più un’opzione o una strategia di alleggerimento del discorso politico, bensì il motivo dominante, giù in strada, tra la gente, in nome della dissacrazione e dell’annichilimento euforico, come nelle rivolte del finale di “Joker”. Altro che semplificazione e divulgazione e allargamento della platea. “I nostri sono diventati talk politici molto seguiti”, diceva già nel 2013 Barbara D’Urso in un’intervista al Corriere, “con ascolti paragonabili a programmi di prima serata. Io sto cercando di capire la politica per farla capire alla gente e i politici si sono accorti che da me incontrano un pubblico popolare molto importante che di solito non segue gli approfondimenti politici”.

 

La svolta politica del prime-time di “Non è la D’Urso” non poteva che inaugurarsi con Matteo Salvini, subito rientrato nei panni dell’oppositore, dell’antagonista che strappa l’applauso in studio più e prima di altri, fino alle standing ovation a “Di Martedì”, con signore in piedi che urlano “capitanoooo”. La televisione ha spostato tutta la politica sull’inseguimento compulsivo dei sondaggi e lo share diventa metro di misura attendibile delle intenzioni di voto: Giorgia Meloni che litiga coi vip da Barbara D’Urso batte Matteo Salvini, ospite in parallelo da Massimo Giletti. Dati in effetti in linea con alcuni sondaggi recenti che vedono la Meloni ormai in testa (preceduta solo da Conte) nella classifica dell’indice di gradimento, fino al prossimo talk. Con Salvini c’erano invece da Barbara D’Urso una serie di vip in tenuta antifascista: Asia Argento che difendeva l’importanza del 25 aprile, Alba Parietti tirava fuori il nonno partigiano, Alda D’Eusanio, materna e comprensiva, ammirava il “talento” di Matteo Salvini, e poi Iva Zanicchi e Idris, in quota ripescaggi, con camicia hawaiana, occhiali da sole, vestito così perché era “la settimana del cambiamento climatico”, e probabilmente ubriaco. Mentre Matteo Salvini incassava applausi a “Non è la D’Urso”, Giletti, con formidabile gioco di specchi e di sponda dibatteva con Pamela Prati sul caso Mark Caltagirone. Domenica scorsa, invece, mentre Meloni parlava in spagnolo, Giletti prova a telefonare in diretta a Chef Rubio per rimproverarlo del tweet sulla disgrazia di Trieste, in cui il cuoco di Frascati se la prendeva con le “fondine difettose” e gli “agenti impreparati” e le “condizioni di insicurezza” in cui lavora la polizia. Chef Rubio ha alle spalle una miriade di tweet “unti & bisonti” in cui, tanto per dire, Netanyahu diventa un “uomo di merda spalleggiato da tanti altri maiali”, oppure ci si augura che a Salvini arrivi “una busta coi proiettili” o che gli elettori di destra finiscano nei lager. Rispetto al suo repertorio, il tweet su Trieste pareva scritto in punta di penna su carta profumata, ma Giletti fiuta l’indignazione nazionale alle porte. Passi che gli ebrei sono maiali, passi che Salvini deve morire male, ma sulla “fondina difettosa” viene giù tutto. Si monta il caso. Chef Rubio non risponde al telefono, Giletti richiama, squilli vari e inquietanti in sottofondo mentre, nel frattempo, su Canale 9, Chef Rubio addenta una faraona in una puntata di “Camionisti in trattoria” e Paolo Cento in studio la butta in caciara: “non vorrei che Chef Rubio dovesse pagare per le sue posizioni politiche”. Poi si incazzano un po’ tutti, da Rita Dalla Chiesa a Franco Gabrielli.

 

Mentre Meloni parlava in spagnolo dalla D’Urso, Giletti provava a telefonare in diretta a Chef Rubio per rimproverarlo

Giletti usa la coppia Salvini-Di Maio come quelle di “Temptation Island”, manca solo il falò. Quando entra uno quello gli mostra il video dell’altro, partoni gli spergiuri, i rinfacci, le telefonate mai fatte, il “mojito di troppo”, perché “è nella separazione che si capisce la forza con cui si ama”, come dice Alessia Marcuzzi aprendo la puntata nel resort a Santa Margherita di Pula. Stessa scena a “Di Martedì”. Da Floris si festeggia il taglio dei parlamentari con Di Maio: “Chiudiamo quindi la vicenda della casta e iniziamo a occuparci dell’economia italiana”; “Salvini si è autofatto un complotto, non c’è altro da dire”. Esce Di Maio, entra Salvini: “Quello di prima mi ha dato del matto, ma non sono matto”. Più che un’intervista, una seduta di analisi, con Floris che rievoca la scena primaria, il trauma originario: “Torniamo a quel momento, quando lei era ministro degli Interni”. Le coppie che divorziano si parlano con gli avvocati, Salvini e Di Maio si parlano via Floris e Giletti. Ma è alla domenica sera che la telepolitica, coi suoi intrighi, le sue trame, i tweet giganti sul led in studio, giunge al fatidico climax. Ci si arriva dopo una dura settimana di lavoro: lunedì Porro, martedì Floris, mercoledì Mario Giordano, giovedì Paolo Del Debbio, venerdì “Propaganda Live”, come un’oasi di relax, un cabaret per arrivare preparati al meglio alla doppietta D’Urso-Giletti della domenica sera, incarnazione suprema dell’evoluzione storica del presentatore dei talk: conduttore, arbitro, padrone di casa, tribuno, capo-popolo. Ospiti sempre uguali, politici pure. Per quanta insofferenza si possa provare, va riconosciuto che non è facile scrivere trecento programmi con tre politici, sempre loro, sempre in primo piano, sempre senza contraddittorio, ormai titolari di una rubrica più che invitati in trasmissione.

 

Punto archimedico della parata di talk politici e momento di torsione della settimana è il mercoledì di “Fuori dal coro”. Mario Giordano si presenta con un cartonato di Giuseppe Conte conciato da James Bond. Convinto dell’irresistibilità della gag si mette al fianco della sagoma e continuamente interrompe il monologo dicendo “Cont”, “James Cont”. Poi reinterpreta a suo modo l’omaggio delle “Iene” a Nadia Toffa. Sfodera una parata di poliziotti, carabinieri, alpini, tutti fermi, immobili, schierati in fila, mentre Giordano ci fa lo slalom dentro e rende onore ai caduti di Trieste raccontando “l’humus di violenza” in cui vivono gli extracomunitari.

 

Per qualche strano motivo si è diffusa l’idea che l’improbabile, esorbitante numero di format politici che è vanto e gloria del palinsesto italiano sia “sinonimo di democrazia”, e che al contrario, tutti quei senatori e deputati fossero solo un inutile spreco della politica, pardon della “casta”, e tanti saluti a pesi, contrappesi e garanzie. Oggi Di Maio rivendica con orgoglio una vittoria che, più ancora che col Pd, andrebbe condivisa con “Striscia la notizia”, “Le Iene”, “Report”, “Ballarò”, “Dritto e rovescio”, “Piazza Pulita” e tutta la compagnia di giro. Dietro quell’ottanta per cento di italiani che gioiscono per la scure che ha tagliato i costi della nostra democrazia ci sono anche i frutti di almeno quindici anni di telepolitica scatenata.