Ora al Papeete c'è Er Faina

Andrea Minuz

Il miglior prodotto del populismo da reality. La tv taglia e cuci che si fa con quel che si può, come i governi

Per intensificare la sovrapposizione tra politica e trash televisivo, il resort di “Temptation Island” raccoglie il testimone dal Papeete Beach e sfoggia quest’anno il suo piccolo Truce che, come quell’altro, sarà alle prese con colpi bassi, tradimenti, complotti e raggiri vari. La versione “vip” del reality dei cornuti riparte “dar Faina”. Per i lettori comprensibilmente ignari del personaggio, “Er Faina” è il nickname del trentenne Damiano Coccia, androide borgataro di Ponte di Nona, periferia di Roma est, uno youtuber molto seguito in rete, celebre per i suoi video pieni di parolacce, insulti, grugniti, sfoghi contro il sistema, gag, barzellette e confidenze “de panza”, come direbbe Er Faina, ma anche quell’altro.

 

Er Faina commenta l’attualità, gli sbarchi, la politica, si abbandona a considerazioni sessiste sull’amore, le donne

Un hater ultratatuato, fascistoide, caciarone, la versione “influencer” dei “ragazzi di vita” di Pasolini e punto di congiunzione ideale tra “Romanzo criminale”, “Gomorra” e “Suburra”. Er Faina commenta l’attualità, gli sbarchi, la politica, si abbandona a considerazioni sessiste sull’amore, la coppia, le donne, è molto attaccato alla nonna che ogni tanto interpella anche nei video. “Uno der popolo”, insomma. Inutile chiedersi perché “er Faina” possa considerarsi un vip (la domanda non ha più senso da anni: nei reality i personaggi “famosi” non sfiorano più neanche la notorietà di un Martufello agli esordi). Casomai è interessante chiedersi cosa ci faccia in tv, visto che ha costruito il proprio seguito con insulti rivolti soprattutto a tronisti, presentatori, personaggi dello spettacolo, secondo lo schema consolidato “popolo vs. élite”, e quindi immancabili video sul “governo che salva le banche e uccide i cittadini”, dove Er Faina diventa la versione burina di Mario Giordano.

 

Adesso anche lui dopo anni di “vaffanculo” è diventato casta. “Il programma mi è sempre piaciuto, casomai ce l’avevo con i concorrenti”, dice ora che sta in televisione, potendo contare sull’esemplare disinvoltura con cui Giggino Di Maio, l’altra sera da Floris, spiegava bene la nuova alleanza: “Ero scettico sul Pd, ma su alcuni temi siamo sempre stati d’accordo”. Bastava farsi uno squillo. Grande metafora della romanizzazione dei barbari, Er Faina è però, soprattutto, l’ennesimo tentativo con cui la televisione prova ad annettersi il pubblico impalpabile, indecifrabile e sparpagliato di internet. Come dicono i suoi colleghi youtuber, altrettanti aspiranti vip e influencer, ora è solo “uno che s’è venduto pe’ quattro spicci e un po’ de tv”. Il fatto che per la “Instagram generation” la televisione sia sinonimo di “quattro spicci” la dice lunga sui discorsi con cui da anni celebriamo la scomparsa, sempre prossima, sempre imminente, della tv. Per loro la tv è già morta da un pezzo.

 

Vent’anni fa i Faina di tutt’Italia puntavano dritti ai provini del “Grande Fratello”. La trasformazione dei reality

Vent’anni fa i Faina di tutt’Italia puntavano dritti ai provini del “Grande Fratello”. La televisione dettava le regole del gioco. I reality potevano essere l’inizio di una carriera scintillante come attore di fiction, presentatore o capo ufficio stampa di Palazzo Chigi. Oggi sembrano un premio alla carriera per percorsi costruiti rigorosamente fuori dalla televisione, sperando così di agganciare il pubblico più giovane che guarda video in continuazione ma non vede mai la tv e forse non sa nemmeno com’è fatta. Agli occhi di questi spettatori, l’apparizione der Faina in un reality di Maria De Filippi diventa l’equivalente di una “legge Bacchelli” per le star di Instagram e YouTube.

  

Costruire un prodotto televisivo innovativo, avvincente, capace di catturare un pubblico trasversale è sempre più difficile ma le soluzioni non sembrano venire da internet. Si sa che la novità in televisione è un prodotto illusorio che si fonda, come la democrazia diretta in politica, sulla prosecuzione del “vecchio” con altri mezzi. Le repliche di Montalbano sbaragliano lo share e i programmi più visti dell’estate sono stati “Techetecheté” e “Paperissima Sprint”. La bolla della tv replica all’infinito sé stessa in un iperbolico funerale a reti unificate, e il personaggio televisivo protagonista dell’ultima stagione è stato un fantasma, l’inesistente, Mark Caltagirone).

 

“Resilienza” sembra una parola inventata apposta per la televisione generalista nell’epoca di internet. Abbiamo quattrocentoventuno canali, ci siamo affrettati a connettere la tv alla rete, ci siamo abbonati a Sky, Netflix, Amazon Prime Video, seguiamo i live streaming su tablet, pc, smartphone, non diciamo più “che ti guardi stasera?” ma “cos’hai nella library”, eppure in cima agli ascolti ci sono programmi fatti con le teche Rai o i video di gattini, capocciate, capitomboli inviati da utenti premurosi e tenuti insieme dalla voice narrante di Michelle Hunziker e Jerry Scotti. “E’ un fatto penoso”, diceva qualche tempo Antonio Ricci con la consueta perfidia, “ma Paperissima Sprint batte tutti e la domenica fa il doppio o il triplo di Fazio con filmati di bambini che cadono e che in molti casi sono anche già morti perché sono filmati vecchissimi”. Parliamo di cifre e curve di share da fare invidia a parecchi format dell’offerta invernale, con una crescita costante di spettatori (e investitori pubblicitari), dunque di un successo che non si può spiegare solo con le ferie e le vacanze ma che, al contrario, gronda metafore culturali, sociologiche e, ovviamente, demografiche. Se gli esperti dicono che alla tv generalista restano sì e no dieci anni di vita, questo lunghissimo crepuscolo televisivo ha trovato un suo specifico nella nostalgia e nella moltiplicazione dell’identico. Anche Reality e talent si flettono all’infinito, si spolpano fino all’osso, si rifanno in versione “over”, “vip”, “superstar” o “bis”, come il governo Conte. La televisione si scrive sempre meno e si monta e rimonta sempre di più.

   

La veglia a reti unificate per i dieci anni dalla scomparsa di Mike Bongiorno andata in scena sabato scorso è stata il trionfo supremo di questa logica, ovvero del primato dell’archivio, del montaggio, del riciclo del passato. Gli interi palinsesti di Rai e Mediaset sono stati riscritti in funzione del ricordo del presentatore: dallo speciale del “Maurizio Costanzo Show” a “Paperissima Sprint”, dedicata alle celeberrime gaffe di Mike, poi una carrellata di “Superflash”, “Bis”, “Viva Napoli”, il passaggio del testimone con i quiz di Gerry Scotti, la passerella con le vallette parlanti, Sabina Ciuffini, Paola Barale, Antonella Elia, le puntate della “Ruota della fortuna” con Matteo Renzi e Matteo Salvini, il primo perculato da Mike a suon di “buuuuh” perché sbaglia una risposta facile-facile, il secondo chiamato a rispondere a una domanda sulle tangenti, perché la vita, come dice Woody Allen, non imita mai l’arte ma la brutta televisione. Alla fine della veglia lo share maggiore se l’è preso la puntata di Techetecheté costruita sul repertorio Rai di Mike Bongiorno. La deriva nostalgica della televisione, già inarrestabile ai tempi del “karaoke dall’oltretomba” di Paolo Limiti (copyright Aldo Grasso) e di “Anima Mia” di Fazio-Baglioni, è diventata il paradigma di riferimento del nostro entertainment, agisce in profondità e determina la logica produttiva della tv e del rapporto con il pubblico. Le ragioni sono molte. C’è l’analisi costi-benefici, ovviamente, cioè il basso costo dei programmi di montaggio e delle repliche che così facendo uniformano l’intrattenimento alla produzione dei talk-show costruita su buoni-taxi e ospitate gratiuite; tuttavia, come spiega Luca Barra, studioso dei media e autore di un bel saggio sulle trasformazioni dei palinsesti televisivi, c’è anche dell’altro: c’è l’affermazione della “dimensione profondamente seriale e iterativa della tv che c’è da sempre e che funziona soprattutto per l’intrattenimento leggero: vogliamo vedere qualcosa di nuovo, ma infondo la ripetizione dell’identico ci rassicura”.

 

La deriva nostalgica della televisione è diventata il paradigma di riferimento del nostro entertainment

Il successo di Techetecheté, in particolare, si comprende così come punto di incontro tra reiterazione, nostalgia canaglia e inedita creazione autoriale (non a caso, i montaggi delle puntate hanno ormai titolo e nome del curatore scritto a caratteri cubitali nella sigla di testa), secondo una logica che proprio nelle commemorazioni e celebrazioni nazionali trova la sua perfetta cristallizzazione, come per l’anniversario di Mike Bongiorno, Lucio Battisti o il ponte Morandi di Genova. “L’autocelebrazione della televisione, attraverso i montaggi di archivio, i documentari, i talk, gli anniversari, i ricordi, è certo parte della pluridecennale attitudine della tv a mettere in scena costantemente sé stessa”, spiega sempre Barra, “ma negli ultimi anni risponde anche alla necessità di ritrovare un terreno e un linguaggio comune, condiviso, per il grande pubblico. Il ricordo della televisione passata è qualcosa che ancora unisce tutti, e questa ripetizione cerca di stabilire un orizzonte congiunto tra le generazioni, includendo persino quelle che la tv del passato non l’hanno vissuta. Se vogliamo, è un successo: riconosciamo finalmente il ruolo della tv come collante nazionale, componente cruciale di un immaginario che non è solo nostalgico ma più ampiamente spettacolare”. Se invece viene impugnata in contrapposizione con il “nuovo”, la nostalgia come “specifico televisivo” rischia di diventare accanimento senile, scivolando via via nella pedagogia nazionalsovranista, nell’idolatria della “bella televisione italiana di una volta”, come diceva Lorella Cuccarini in versione Fusaro, ospite da Caterina Balivo: “La mia era una televisione artigianale, una tv fatta da persone che facevano un tv solo italiana che era unica e si vedeva solo in Italia. Oggi la globalizzazione ha reso la tv un po’ uguale dappertutto, i format sono sempre uguali in Inghilterra, Spagna o in America. Una volta la televisione italiana era solo italiana ed era una delle migliori del mondo perché esprimeva grande capacità creativa e professionale, dentro e fuori, dalle maestranze alle direzioni generali” e, si sa, eravamo anche tutti più giovani e belli. Ma la caduta tendenziale della qualità della televisione (sempre rimpianta da morta e sempre schifata in vita) è un mantra che lascia scoperte le grandi mutazioni in corso. Per esempio, l’inversione radicale dei rapporti televisivi tra intrattenimento e politica con il primo che migra verso altri spazi e logiche di consumo (piattaforme, social) e la seconda che occupa ormai tutti i palinsesti, mima atteggiamenti, comportamenti, registri e fraseologia del discorso televisivo e del suo chiacchiericcio continuo condannato a un eterno presente (non a caso in quarantotto ore si possono rovesciare e smentire dieci anni di lotta politica; c’entra il trasformismo nazionale, certo, ma c’entra anche la logica televisiva applicata alla politica).

 

Avremo una Bibbiano “rabbiosa” versione Mario Giordano e una lacrimevole con la D’Urso. In tv tutto è politica

Chissà se la nostalgia per il vecchio governo si impadronirà dei nuovi talk-show appena rientrati dalle ferie o se anche lì la ripetizione dell’identico si offre come la strategia migliore. Mauro Corona e Bianca Berlinguer si erano lasciati malamente, giurando di non vedersi mai più, ma sono già ritornati insieme (chi meglio del montanaro con la bandana può spiegarci i segreti e le oscure manovre che hanno condotto al Conte Bis). Barbara D’Urso ha annunciato le novità dei suoi programmi, cioè metà palinsesto Mediaset, “Pomeriggio 5”, “Domenica Live”, “Non è la D’Urso”: “Lanceremo Domenica Alive, una sorta di torneo dove alcuni personaggi famosi reinterpreteranno in maniera ironica canzoni o videoclip musicali”, seguendo quindi l’antica legge della tv che dice: se non sai cosa fargli fare, falli cantare. Ma il pezzo forte delle new entry della D’Urso si chiama “Dna”, uno “spazio dedicato alle persone che cercano i loro genitori biologici. Abbiamo ricevuto tante richieste di aiuto da parte di ragazze adottate che vorrebbero conoscere la propria madre biologica e metteremo a loro disposizione i massimi esperti di Dna, con il supporto di Paola Caruso”, la soubrette bombastica che nella scorsa stagione fece il test in diretta dalla D’Urso, scoprendo tra le lacrime di essere figlia di sua mamma Imma che era lì accanto a lei, anche se all’ignaro spettatore potevano sembrare due coetanee a un provino per “Uomini e Donne”. “Dna” è la risposta della D’Urso a Bibbiano. Avremo quindi una Bibbiano “isterica” e “rabbiosa”, versione Mario Giordano e quella lacrimevole, da telenovela brasiliana, della D’Urso. Perché tutto è politica. Ma in televisione lo è ancora di più.

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