Antonino Canavacciuolo, uno dei giudici di Masterchef

Aveva ragione Kierkegaard, alla fine non ci resteranno che i cuochi

Michele Silenzi

Lo chef in tv è il solo riconosciuto esempio di autorevolezza

La diciannovesima edizione de “La prova del cuoco”. L’ottava edizione di “MasterChef”. La sesta edizione di “Cucine da incubo”. La quinta edizione di “4 ristoranti”. La seconda edizione di “Camionisti in trattoria”. Sullo sfondo del succedersi dei programmi di cucina, con protagonisti assoluti gli chef che occupano le televisioni a dispetto di qualsiasi par condicio, ci godiamo le sceneggiate della Quarta Repubblica, dalle elezioni regionali in su, senza pensare che questa è, in realtà, la Repubblica numero zero, intesa come azzeramento di senso delle istituzioni e dei loro rappresentanti e come perdita di quel senso di durevolezza, affidabilità e rassicurazione tipica dei luoghi in cui risiede un’autorità piena di autorevolezza. Così succede che un pensiero improvviso e inevitabile, quasi categorico, ai limiti dell’illuminazione salti in testa guardando il cipiglio deciso e competente degli chef in tv alternarsi alle immagini rumorose e scialacquate dei nostri leader: la politica s’ispiri alla cucina. Scrisse Kierkegaard, in maniera ahinoi profetica, “La nave è in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani.” Il cuoco di bordo era l’immagine dell’uomo corrivo, che pensava solo a riempirsi la pancia oggi senza pensare ad alcuna progettualità condivisa e di lungo termine. Gilet gialli, partiti del rancore, della protesta, del populismo, ecco i padroni della scena, i cuochi immaginati da Kierkegaard. La repubblica, si diceva, è al punto zero. All’autorevolezza icastica e altera si è sostituita una sciarada continua, forma mobile di rappresentazione, derelitta rappresentanza democratica. Ciò non è avvenuto perché il nulla ha occupato le poltrone del potere, è esattamente il contrario. Il nulla ha occupato le poltrone del potere perché quelle si erano svuotate della loro autorevolezza. Sarebbe necessario dilungarsi, e molto, sulle origini di tutto ciò, ma i vincoli di tempo e spazio non lo consentono. Ma perché, giunti a questo punto, deve essere proprio il cuoco, o meglio, nel nostro caso, lo chef televisivo a salire in plancia di comando? Perché, in maniera piuttosto sconcertante, rappresenta l’ultima ridotta dell’autorevolezza. Tutti gli altri l’hanno perduta o, più correttamente, si ha la percezione che l’abbiano perduta. Primi ministri e ministri, alti prelati e finanzieri, filosofi e scrittori, medici scienziati biologi chimici fisici, perfino i cantanti. Tutto è discutibile, tutti sono rimpiazzabili, tutti possono essere tutto, uno vale uno e quindi non c’è niente (e nessuno) che valga qualcosa.

 

I programmi di cucina, su cui sono stati scritti infiniti articoli e articolazioni sociologiche, non hanno bisogno di ulteriori analisi oltre quelle sentite mille volte: tutto ciò che ci è rimasto è mangiare, il resto è disperazione e il vuoto esistenziale da cui ci sentiamo assediati (facendo della spicciola psicologia da studio televisivo in chiaroscuro) non riusciamo a riempirlo in altro modo che con il cibo. Anzi, neppure con il cibo ma con la sua immagine, con il suo simulacro televisivo (per dirla à la Baudrillard). Lasciando, per stavolta, da parte un approfondimento sul nichilismo culinario contemporaneo, e restando più in superficie, vediamo che l’apparire dello chef televisivo come il solo riconosciuto ed ecumenico esempio di autorevolezza, di competenza oggettiva, è il suggello tragicomico del nostro presente. Il tempo di cottura di un astice, il ripieno di un tortellino, la composizione della crema chantilly, l’impiattamento di un filetto di branzino, diventano le uniche verità definitive attorno a cui tutti ci ritroviamo e da cui tutti prendiamo esempio nella vita quotidiana.

 

Guardateli, gli chef, con che rigore ammoniscono e suggeriscono, consigliano, guidano, comandano, insultano e valorizzano, costruiscono talenti, tutto su base molto meritocratica. E lo fanno dall’alto della loro grande competenza, della loro scienza culinaria. Competenza, carisma, autorevolezza, gli assi portanti della politica li ritroviamo soltanto in cucina. E allora il paradosso di Kierkegaard, la funesta e veritiera profezia che alla guida della nave c’è il cuoco di bordo potrebbe rivelarsi oscenamente felice e stordente, la risposta sconcertante ai desideri confusi, ma finalmente esauditi, che salgono dalla chimerica pancia del popolo. Con il nocchiero, non certo un pelapatate, vestito da televisivo chef stellato pronto a puntare la prua della nostra nave verso un futuro avvolto dai fumi, ebbri, della cucina.

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