Quarantatré anni di spettacolo e “undici di diretta quotidiana”: Barbara D’Urso (ora anche il mercoledì con “Non è la D’Urso”), di gran lunga il reality più lungo della storia

“Non è la D'Urso”, una nuova finestra per il populismo televisivo

Andrea Minuz

Il trash è politico. La convergenza di Lega e M5s nel “sentiment” di un talk infinito

Si apre un’altra finestra per il populismo televisivo. Dopo la domenica da Giletti, il martedì da Floris e il giovedì da Formigli, Salvini potrà andare il mercoledì a “Non è la D’Urso”, nuova creatura della factory Mediaset che tiene insieme, “Domenica Live”, “Pomeriggio Cinque”, il prossimo “Grande Fratello” e “La Dottoressa Giò”. Potrà testare il “live sentiment” degli italiani sulla flat tax, la legittima difesa, le Ong, il pecorino sardo, Mussolini che ha fatto anche cose  buone e un’eventuale invasione della Francia. Il “live sentiment”, spiega Barbara D’Urso, è “la vera novità del programma”: “Metterete mi piace o non mi piace alle storie che sentirete in diretta e il risultato sarà comunicato in tempo reale, sarà una trasmissione interattiva, in pieno stile social network”. L’inseguimento della democrazia diretta scaturisce dalla televisione e la televisione ce lo restituisce nelle forme del trash più collaudato. Immersa nella “lux aeterna” dello studio di Barbara D’Urso, Carla Fracci esce da una capsula bianca vestita come un cavaliere Jedi per spiegare il messaggio universale della danza a una rilucente, glitteratissima Loredana Lecciso; nel frattempo, Cristiano Malgioglio, incappucciato da massone del Grande Oriente d’Italia catapultato in una puntata di “Star Trek”, si inginocchia ai piedi di Al Bano. Potrebbe essere il nostro “Games of Thrones”, la nostra Marvel, l’ennesima  reprise  della saga “Lecciso – Infinity War”. La coincidenza con il down di Facebook e Instagram non può essere stata un caso. Si comprende tutta l’apprensione dell’Ucraina per Al Bano, minaccia per il paese, grande ammiratore di Putin, più sovranista di Salvini (“una canzone italiana su tre alla radio è poca cosa, almeno sette su dieci”) e plausibile troll russo del trash televisivo italiano. Da Barbara D’Urso, Al Bano propone di incontrare il ministro della Cultura ucraino perché, dice, “credo nella pace”; “la dimostrazione è che sei qui con Loredana”, chiosa la conduttrice. L’ospitata della coppia viene sbandierata come un’“esclusiva internazionale”. Barbara D’Urso illustra allo spettatore tutte le novità del programma: le cinque sfere, l’ascensore, il mini “drive-in” dove proiettare i ricordi del personaggio invitato, che nel caso di Al Bano è un filmettino in seppia coi contadini pugliesi che arano la terra, poi una lunga parata di duetti con Romina Power cercando nello sguardo di Loredana Lecciso qualcosa che tradisca rabbia, furore, vendetta, mentre lei se ne sta lì catatonica, incapace come noi spettatori di capire cosa stiamo guardando. In un blob vintage, spunta un’antica puntata di “Stranamore” con Alberto Castagna che sfodera un cartello con la scritta, “onestà”, all’epoca usato per immortalare il tratto più specifico dell’amore tra Al Bano e Lecciso. Ma siamo solo all’inizio. Il programma, ennesimo talk “monstre” della nostra tv, sconfina ben oltre le quattro ore, passando da Fabrizio Corona al dibattito sulla fecondazione assistita, con Vladimir Luxuria, la vita intrauterina di Veronica Maya, quella di Heather Parisi e una surreale litigata con Alessandro Meluzzi che evoca il tempo sacro del concepimento mentre lei dice, “a San Francisco mi chiamavano frocia”. Si sfuma a notte fonda su un’intervista al fratello di Meghan Markle che sembra Claudio Lippi e racconta tutta la frustrazione di fratello sfigato, tanto per ribadire uno specifico della D’Urso, la capacità di dar voce alla rivalsa del popolo contro le élite, nonché a personaggi che hanno la dimensione, la statura e il formato accordati dalle sue trasmissioni e che fuori di lì non hanno una esistenza, non dicono cose. Un trash lugubre, funereo, noioso, fatto di tantissimo repertorio e senza un’idea televisiva, se non la consapevolezza che il trash non sia più una deriva dello spettacolo ma un progetto politico trionfante.  Ospite a “Non è la D’Urso”, Fabrizio Corona lo spiega molto bene:  “Io sono un pezzo della storia di questo paese, tra trent’anni si parlerà ancora di me perché io rappresento un passaggio storico, il passaggio dal ’94 al cambiamento, io rappresento tutto questo”. Dunque, un passaggio epocale.

 

“Metterete mi piace o non mi piace alle storie che sentirete in diretta”. Ma nessuno ha capito cosa farsene dei like in tv

Nel 1994, erano considerati trash il videomessaggio della discesa in campo di Berlusconi e il karaoke con l’inno di Forza Italia, il “partito di plastica”.   Com’è noto, l’errore di valutazione fu enorme. Il giorno della discesa in campo , Berlusconi si era chiuso ad Arcore per l’intera giornata a perfezionare il testo, a studiare la scenografia, a scegliere e calibrare le luci insieme con Antonio Tajani e Gianni Pilo. Tutto oltremodo trash, si disse all’epoca: le cornici d’argento, la libreria in noce, il calamaio, il fondotinta, l’ostentazione della mitologia del self-made man, del buon padre di famiglia, del capo azienda magnanimo. Venticinque anni dopo, l’immagine di Salvini che mangia la nutella, ripreso di sbieco, in penombra, con orribile lampadario della nonna alle spalle, afferma la supremazia di un altro regime estetico dove tutto esonda nell’approssimazione dilettantistica, nella bassa definizione, nell’amatorial, un po’ come è successo nell’industria del porno. Se c’è un punto in cui la storia della Lega e quella del Movimento 5 stelle erano destinate a convergere è proprio questa adesione naturale allo spirito trash del tempo, dall’ideologia grossolana del folklore pecoreccio e del mito fatto in casa (il rito dell’ampolla dell’acqua del Po, la festa dei popoli padani) alla spregiudicatezza dell’incompetenza (la comunicazione del M5s). Il trash non è più soltanto l’emulazione fallita di un modello alto, secondo l’ormai celeberrima esegesi elaborata da Tommaso Labranca (casomai quello è Calenda che imita Salvini che imita Putin che si tuffa nei laghi ghiacciati della Russia). Il trash è politico e la politica si è trasferita in tv o nel “sentiment” dei social. Tra il karaoke di “Forza Italia” e l’inno dei Cinque stelle, tra il messaggio della discesa in campo e i video con inquadratura storta e fuori fuoco di Salvini si consuma tutto lo scarto tra la comunicazione aziendale prestata alla politica e l’arrembaggio trionfante dell’improvvisazione, della spontaneità, dell’inesperienza ostentate come sintomo di purezza, segno distintivo, stigma imprescindibile di prossimità con il popolo.  D’altronde, che trash e populismo siano due facce della stessa medaglia è ormai sin troppo evidente. Non serve neanche evocare l’arredamento in stile Luigi XIV, strabordante oro, diamanti e giganteschi leoni di peluche all’ultimo piano della Trump Tower. Ma è la televisione, come sempre, che offre il miglior repertorio possibile. Per esempio,  quando qualcuno evoca il termine “trash”, Barbara D’Urso non si scompone più di tanto. Dice che “il trash piace ovunque, a tantissima gente” e che quasi tutti vorrebbero essere al suo posto. L’anno scorso, ospite in una puntata di “Quinta Colonna”, spiegava di portare in tv soltanto la sua “visione della vita”: “Al bar, nei supermercati, c’è la lite, ci sono le tette rifatte cinque volte, questa è la vita, questa è gente comune, perché definirlo trash?”. Il senso implicito di questi frammenti di manifesto poetico-televisivo campeggiava sopra di lei, nel titolo del servizio scelto da Paolo Del Debbio: “Barbara D’Urso, la signora della politica”. In un’intervista di quest’estate a Panorama diceva: “Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono venuti da me dopo che la loro proposta di governo era saltata. Ho chiesto a Di Maio come mai avevano indicato un solo nome per il ministero dell’Economia e lui ha negato di averlo fatto. A quel punto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto in diretta per contraddirlo. Chiunque avrebbe voluto quel confronto in tv, ma loro hanno scelto me”. Deliri di onnipotenza da share. Nel vecchio mondo della Seconda Repubblica, celebravamo il collasso dei confini tra politica e spettacolo ma infondo eravamo solo agli inizi. Il risotto di D’Alema, Alba Parietti che spiegava la flessibilità a Bertinotti, Valeria Marini contro la magistratura, gli appelli di Iva Zanicchi per Forza Italia, il monologo di Sabrina Ferilli a “Servizio pubblico” (“sono di sinistra perché la storia di questo paese mi dice che qui c’è il meglio e quando Michele m’ha detto di portare qualcosa di rosso ho portato me”, anche se tutti hanno pensato “le mutande”). Ricordi lontani di un trash sbiadito. Oggi è diverso.  A Roberto D’Agostino va riconosciuto di aver intuito per primo quanto il trash fosse il vero campo di indagine utile per comprendere l’evoluzione dei rapporti tra politica, comunicazione e spettacolo. Quando qualcuno definisce il suo “Cafonal” la “dolce vita di oggi”, D’Agostino risponde, “io la chiamo la truce vita”, proprio come su questo giornale si apostrofa il ministro degli Interni.

 

“Il politico più importante che c’è oggi in Italia fa esattamente quello che faccio io”, dice Fabrizio Corona all’indomani dell’affaire Fogli

Nel mondo dopo la destra e la sinistra il trash non è più un ingrediente televisivo come un altro. Il trash è la cornice in cui prendono forma sentimenti, emozioni, ideologie dominanti, a cominciare evidentemente dal racconto della rivalsa populista.  Gran parte della televisione degli ultimi mesi si regge sopra due format: l’intervista al vicepremier, quella al ministro degli Interni e le scuse di Corona.  “Il politico più importante che c’è oggi in Italia fa esattamente quello che faccio io”, dice Fabrizio Corona nella conferenza-stampa all’indomani dell’affaire Riccardo Fogli, “prende delle notizie sui giornali, le cavalca, fa gossip sugli immigrati, sull’assassino, sul caso di cronaca, poi le pubblica, cerca i like, è uguale a quello che faccio io”.  Spiega che lui è “tra gli eventi televisivi più importanti dell’anno”, che è un “artista del giornalismo” (“non so se avete visto che le cose che ho fatto ultimamente da Giletti, le mie inchieste, erano pezzi di una qualità giornalistica, molto buona, intuitiva, ecco quello è alto giornalismo secondo me”). Una formidabile conferenza-spettacolo che si svolge sotto l’occhio vigile del suo tutor terapeutico, Pietro Farneti, modello che andrebbe replicato anche nella politica (immagini come quella del taglio della torta a forma di Ponte Morandi assumerebbe un altro significato in presenza del tutor terapeutico). Ospite da Giletti, Corona aveva detto: “I miei psichiatri dicono una cosa: che quando per due giorni non si parla di me, io faccio qualcosa per uscire sui giornali;  è un’ossessione e poi faccio danni.  Anche per i politici è così”. Ne sappiamo qualcosa. A “Non è la D’Urso”,  Corona ha chiesto scusa per una vecchia storia di finte canne o sigarette rollate al parco dal figlio di Barbara D’Urso. Partono i filmati di repertorio per uno sguardo rapido e sommario sulla vicenda. Barbara D’Urso urla “mio figlio non lo tocca nessuno!” con mossa à la Beyoncé e standing ovation inferocita delle signore del pubblico alle sue spalle, mamme e nonne che fanno a botte alle partite di calcio di figli e nipoti, soggetto ideale per la “Ribellione delle massaie”, uno spin of da Ortega Y Gasset.

 

Senza un’idea televisiva, se non la consapevolezza che il trash non sia più una deriva dello spettacolo ma un progetto politico trionfante

Nella prima puntata di “Non è la D’Urso” si invitava a gran voce il pubblico a seguire “l’hashtàg”, pronunciato così, come una via di mezzo tra il sovranista “cancelletto” e il simbolo che usiamo su Twitter. Ma un programma costruito sull’integrazione tra i social e la televisione resta un miraggio. Serve allo spirito del tempo, alla democrazia del popolo sovrano, ma nessuno ha capito cosa farsene dei like in tv. Non ci si allontana mai dal vecchio indice di gradimento o dal televoto, non a caso tornato al centro del dibattito politico con l’ultimo Sanremo, al massimo c’è Diego Bianchi che legge i tweet alla lavagna come il Maestro Manzi.   Col “sentiment” ci aveva già provato la Berlinguer a “Cartabianca”, ma non è mai decollato, meglio i monologhi ubriachi di Mauro Corona addobbato da forestale. Meglio insistere sulla forza indistruttibile del trash, sulla sua furibonda impennata politica. 

 

E’ almeno dagli anni Ottanta che ripetiamo che la televisione riproduce solo sé stessa, ma nessuno come Barbara D’Urso ha condotto alle estreme conseguenze tale principio. Da Boncompagni alla D’Urso, l’idea di infilare un “Non è” davanti al titolo del programma racconta anche la vertiginosa spinta autoreferenziale della tv. Dall’ironia di “Non è la Rai” (che alludeva al “Non è la Bbc” della factory di Arbore), alla teologia negativa e polemica di “Non è L’Arena”, fino alle estremità del dubbio iperbolico di “Non è la D’Urso”, una presentatrice trasformata in palinsesto, un “esperimento aziendale”, come ogni tanto lei stessa si definisce. Barbara D’Urso  come il calcio in tv (non a caso, mercoledì ha battuto Bayern Monaco-Liverpool su RaiUno): domenica il campionato (“Domenica Live”), lunedì il posticipo (“Grande Fratello”), mercoledì la Champions (“Non è la D’Urso”), tutta la settimana aggiornamenti da “Pomeriggio Cinque”. Un flusso continuo di immagini, ospiti, esperienze “live”. Quarantatré anni di spettacolo e “undici di diretta quotidiana”, più o meno quarantacinquemila ore di televisione “live”. Di gran lunga il reality più lungo della storia. E si sa che la politica di oggi viene dai reality di ieri.

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