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L'applausometro dell'indignazione

Salvatore Merlo

Dai politici ai quotidiani, la morte del carabiniere Rega è diventata un pretesto per fare propaganda

Due fatti completamente diversi, che il buon senso, il rispetto e l’intelligenza avrebbero imposto di tenere separati, sono stati invece unificati e trasformati in una sola grande questione dalla sbrigliatissima politica italiana, da alcune televisioni e persino da certi giornali di complemento, che in un attimo sono riusciti nell’oscenità di banalizzare la morte di un servitore dello stato e a degradare in fetecchia twittarola la civilissima questione del habeas corpus. Ed ecco allora il cortocircuito ideologico, la porcheria stupidissima in cui si è avvitata la politica tutta, quella di destra e quella di sinistra: è più giusta l’indignazione verso il brutale assassinio del carabiniere Mario Circiello Rega o quella verso l’umiliazione della bendatura subita dal sospettato Natale Hjort? Aveva cominciato Matteo Salvini, ovviamente, il padrone della scena e del coro, amanuense di sé stesso ma anche delle opposizioni di sinistra capaci di saturare il loro uditorio di slogan che si specchiano in quelli del loro avversario Truce. “A chi si lamenta della bendatura di un arrestato, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un #Carabiniere”, ha scritto Salvini sui social. E il suo sconcio invito a scegliere, a stilare una classifica, è stato ovviamente accettato, al punto che da due giorni si è scatenata tra lui e il Pd, ma pure sui quotidiani – per non citare quegli horror-show che vanno sotto il nome di talk – una sconfortante sassaiola di accuse reciproche. Salvini accusa il Pd di non indignarsi a sufficienza, mentre il Pd lo accusa di fomentare la giustizia sommaria e comportamenti vessatori da parte delle forze dell’ordine. A riprova forse che la grammatica populista dell’iper-semplificazione è un virus ad ampio raggio infettivo. Sintassi naturale della politica e del giornalismo.

 

Succubi di una forsennata banalità ideologica che ci sta avvelenando tutti, ieri persino diversi quotidiani, vicini alla destra ma anche altri vicini alla sinistra, si sono prestati a suonare lo spartito dettato da Salvini, ed esattamente nei termini imposti da Salvini. “Peggio morti che bendati. L’indignazione per l’errore non può superare quella per l’omicidio” (La Verità). E poi Repubblica, speculare e opposta: “La vergogna e il dolore”, con richiami ai terribili fatti del G8 di Genova, all’orrore dell’omicidio di Stefano Cucchi, compresa un’inquietante rievocazione di Scelba, il ministro dell’Interno che aveva favorito l’arruolamento nelle forze dell’ordine dei famigerati “scelbini”, uomini dai metodi risoluti e spicci, spesso torturatori. Per gli uni è peggio l’omicidio di un carabiniere, e per gli altri sono invece in gioco i diritti civili e addirittura i principi democratici, come se le due vicende, l’omicidio del carabiniere e il sopruso subito da un uomo sottoposto a fermo di polizia, debbano procedere collegate fino a risolversi in una questione di tifo che sarebbe fuffa senza interesse se non rappresentasse invece l’intero spettro della politica: cosa vi indigna di più?

 

Come ben si vede, in tutta questa vicenda c’è forse la malattia del paese, il codice e il virus del populismo diffuso che permea il dibattito pubblico, vive sui social e infantilizza i giornali. Perché è comprensibile che dinanzi alla furia e alla brutalità di un omicidio, come di fronte alla coercizione e al bullismo vendicativo da caserma, si rimanga paralizzati come dinanzi all’esondazione di un fiume. Non è comprensibile, ed è anzi preoccupante, l’eccesso di parole e di slogan contrapposti, il metabolismo accelerato: la guerra sulle spoglie, ovvero il morto che diventa il pasto dei vivi.

 

Ma l’Italia non è un enclave premoderna, non è (ancora) una caverna di trogloditi. “Il cuore di Mario è stato trafitto da undici coltellate”, ha detto ieri il Comandante Generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, prendendo la parola ai funerali del brigadiere Cerciello Rega. “E’ bene che noi tutti si eviti la dodicesima coltellata”, ha aggiunto. “Serve rispetto. Giusti i dibattiti, sono legittimi, ma teniamoli lontani”. Ed è forse un paradosso rivelatore che, per ricordare a tutti dove portano i pensieri puliti e i sentimenti sereni, sia costretto a parlare proprio un ufficiale dei carabinieri, cioè un uomo “uso a obbedir tacendo”. Mai era forse capitato che fosse un generale a dover spiegare ai parlamentari e ai ministri, a maggioranze e opposizioni, a intellettuali e giornalisti che scatenano il linguaggio, dove stia invece l’eleganza del pensare e del parlare, la resistenza al fumo dogmatico, la dignità, l’intelligenza, persino la saggezza e il rispetto che sempre si deve alla faccende gravi. Tutto questo sembra rendere in un attimo l’interezza di un tempo impazzito.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.