Carabiniere ucciso, fiori e bandiere listate a lutto sul luogo dell'accoltellamento (LaPresse)

Il lavoro della sicurezza e i suoi rischi “confidenziali” e necessari

Mario Mori

Considerazioni dopo la morte di Cerciello Rega, uno dei tanti carabinieri con l’orgoglio del proprio lavoro. Da tutelare

Il recente caso della morte del brigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega presenta connotazioni tuttora non definite e al vaglio della magistratura requirente. Non è quindi il caso di esprimere giudizi in merito, ma appare forse opportuno mettere a fuoco l’aspetto che sembra costituirne l’effettiva causa scatenante. Mi riferisco cioè al rapporto tra l’investigatore e la fonte confidenziale o l’informatore, ovvero ancora a un altro dei tanti modi con cui può essere chiamato chi si presta a collaborare con le istituzioni per interesse. Pratica questa il cui uso che si perde nella notte dei tempi.

  

Il problema della gestione di una fonte, seppure ampiamente trattato e analizzato dalla dottrina giurisprudenziale, trova esclusivo riscontro formale nell’art. 203 del Codice di procedura penale, che ne prescrive i limiti di utilizzo ma non va oltre, destinando quindi, di volta in volta, la definizione e l’interpretazione di questa figura alla singola attività investigativa ed al giudizio nel procedimento penale che ne deriva. Se questo approccio, in particolare nel processo di rito accusatorio, appare ineccepibile, resta il problema dell’individuazione delle modalità e delle condotte più opportune che deve adottare l’operatore di polizia quando ricorre all’uso di questa tecnica d’indagine, che rimane tuttora uno strumento sostanzialmente valido e correntemente praticato.

  

La pubblica opinione è sollecitata dai fatti delittuosi quando la loro tipologia o la notorietà delle persone coinvolte ne richiamano l’attenzione, talvolta solo morbosa. Il contrasto alla criminalità, anche e sopratutto quella spicciola, la più diffusa, è però un fatto di quotidianità e nel quotidiano sono impegnate le forze proporzionatamente più numerose dei nostri Corpi di polizia. Non si tratta quindi dei così detti “specialisti”, ma degli operatori comuni, quelli che normalmente non vanno agli onori delle cronache per imprese fuori dall’ordinario, ma professionisti che con la loro attività rendono la vita possibile al consorzio civile, sia nelle grandi città che nei piccoli centri del nostro paese. Se si scorrono le statistiche in merito, si constaterà che al cittadino medio importa sì che la grande criminalità, mafiosa e non, sia contrastata efficacemente, ma ancor più, l’interesse comune è in primo luogo rivolto alla sicurezza del proprio quartiere di residenza, alla lotta contro lo spaccio di droga al minuto, l’esercizio della prostituzione, le bande di violenti che infestano le strade, in pratica alla possibilità per sé ed i propri cari di potere circolare senza il timore che qualsiasi persona che ti si para davanti sotto casa possa essere un malintenzionato.

 

Questa branca di attività, nelle Forze di Polizia, è svolta per lo più dal pattugliamento con autoradio, dai Commissariati di zona, e dalle stazioni dell’Arma; tutte piccole unità operative queste che affrontano il problema il più delle volte con un rapporto sperequato di forze con la controparte criminale. Occorre essere del mestiere ed avere vissuto in queste strutture, per comprendere la pressione costante che grava su di esse: da una parte gli abitanti della giurisdizione in cui operano che pretendono giustamente di vedere tutelato il diritto alla sicurezza sancito dalla Costituzione, dall’altra le rispettive scale gerarchiche che premono per ottenere risultati che, statistiche alla mano, attestino anche l’efficienza dell’organizzazione e la bontà delle direttive impartite al rispettivo complesso operativo.

 

Ecco allora che l’esigenza del risultato preme anche psicologicamente sul singolo operatore di strada, l’ultimo ma il più importante anello della catena destinata alla sicurezza collettiva, che deve portare il risultato assicurando alla giustizia il presunto criminale. Questa situazione grava come un peso significativo tra il personale più sensibile, quello che ha la piena coscienza e l’orgoglio del proprio lavoro. Tra costoro, e il brigadiere Cerciello Rega era sicuramente uno di questi, diventa quindi quasi un imperativo morale ottenere il risultato e uno degli strumenti per conseguirlo è quello del ricorso all’uso della fonte confidenziale. Nel caso specifico un soggetto, in qualche modo inserito nel piccolo traffico di droga, che per sbarcare il lunario o potere sopravvivere si prestava a secondare la polizia giudiziaria di quartiere fornendo qualche elemento informativo volto a qualificare un’indagine, ovvero consentire un arresto estemporaneo in flagranza.

 

Risultati questi, per i tipi come Cerciello Rega, per i quali vale la pena di svolgere l’attività anche al di fuori delle ore di servizio comandate, sino a farne una modalità di routine. Prassi questa che induce anche, in qualche circostanza, a disattendere l’osservanza di quelle norme di comportamento doverose nell’esecuzione di un impiego potenzialmente sempre pericoloso. E ciò in forza dell’abitudine a questo tipo di servizio, ma anche per la voglia di sentirsi veramente utile, di ottenere un successo, di riscuotere la considerazione degli abitanti del quartiere in cui operi, fatto che forse all’osservatore distaccato appare solo come una forzatura irragionevole, indice anche di scarsa professionalità, ma alla fine è solo dedizione, di chi fa il proprio lavoro con impegno e convinzione.

 

Da qui si ricava ovviamente l’esigenza di una formazione, costantemente aderente alle dinamiche sempre in evoluzione delle moderne indagini, che deve essere però sostenuta dall’assidua riproposizione di fasi addestrative, mirate allo scopo del miglioramento professionale che si raggiunge anche e soprattutto memorizzando i comportamenti, così da renderli quasi degli automatismi intelligenti che servono a ridurre, anche se non ad eliminare del tutto, i rischi che il servizio su strada propone costantemente a chi lo svolge.

 

In una fase in cui ci si riempie la bocca sull’esigenza dell’effettivo coordinamento tra i diversi Corpi di polizia, la definizione di precisi approcci comportamentali, comuni e codificati, davanti a fenomeni ed aspetti professionali delicati, in grado come sono di creare al proprio personale danni fisici, penali, ed economici, fino ad arrivare, in casi estremi, anche a metterne in gioco la vita, rappresenta un dovere per le nostre gerarchie. Occorre individuare e codificare linee d’impiego, al contempo giuridicamente accettabili e operativamente consone, così da tutelate sotto ogni aspetto il personale dipendente. Gerarchie che poi dovrebbero sempre ricordare come comandare o dirigere non è solo impartire direttive, ma anche intervenire e sostenere quelli a cui diamo gli ordini, evitando loro per quanto possibile rischi ed errori, perché chi non si comporta così non è un capo, ma solo un modesto burocrate.

 

Tanto dobbiamo, non già ai “culi di pietra” e a coloro che offrendo poco chiedono tutto, certamente presenti nelle nostre organizzazioni, ma ai tanti Cerciello Rega, la maggioranza, che pur nelle scontate umane debolezze, proprie di ciascuno di noi, affrontano quotidianamente il servizio svolgendo con impegno i compiti assegnati e talvolta andandone anche al di là, intendendo così rispettare il proprio dovere, ma anche e sopratutto la propria dignità di uomini e di professionisti.

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