Foto Unsplash

Il burn out di tutti noi

Simonetta Sciandivasci

“La lavoratrice” di Elvira Navarro, la malattia mentale, il lavoro e quei fondamenti che non fondano

Roma. “Questi sono malati di mente e nessuno ne parla, dovremmo ricominciare a costruire istituti psichiatrici”, ha detto Donald Trump dopo la sparatoria del 15 agosto scorso, in Alabama (due morti, tre feriti). Negli Stati Uniti si spara, lo sappiamo, e sappiamo anche che di malattia mentale si può morire, uccidendosi, uccidendo gli altri, facendo entrambe le cose, o soltanto soffrire mostruosamente, in solitudine, capendo il perché oppure no. Succede negli Stati Uniti, e dappertutto. Riaprire i manicomi non risolverebbe nulla, naturalmente: per Trump esistono i matti da film, quelli da internare, nati matti da legare, che credono d’essere Napoleone o giustizieri. Rinchiusi loro, noi sani (ehm) condurremo una vita sicura, al di qua del muro (del manicomio, del confine, del giardino). Non se ne parla, dice. Non ha ragione neanche su questo. Cosa dovremmo dire e dirci, poi, che esistono i pazzi? E quindi? Dovremmo, invece, discutere profondamente, continuamente, assiduamente, di come la vita che conduciamo stia diventando incompatibile con l’equilibrio mentale – e scusate il presagio apocalittico. Di come il disagio mentale sia sottovalutato, di come lo stress psicologico e psichico sia accettato come portato inevitabile dell’essere e dell’esserci, e che in fondo sia possibile adattarglisi come ci si adatta a una fase evolutiva. Liberaria, casa editrice indipendente barese, ha da poco portato in Italia un romanzo di Elvira Navarro, per la rivista Granta una delle migliori voci della narrativa spagnola contemporanea, del 2014, “La lavoratrice”, che sembra scritto oggi e purtroppo potrebbe essere scritto anche dopodomani, e che racconta assai bene come la malattia mentale sia una conseguenza spesso inevitabile di un modo preciso di fare le cose, di vivere, di lavorare, e di tutto un tempo: il nostro. Lo abbiamo scritto e letto e discusso spesso sui giornali molte volte: i millennial lavorano troppo, e quando non lavorano non pensano che al fatto che dovrebbero lavorare, e non dormono, e non vanno in vacanza, e qualche mese fa l’Organizzazione mondiale della Sanità ha stabilito pure che il burn out è una sindrome, l’ennesima ospedalizzazione che non ci farà né bene né male (o forse male, più male). E ci è parso così insistito, che a volte abbiamo anche reagito scrollando le spalle, spazientiti come quegli anziani che litigano coi parchimetri o con le fotocellule. Il libro di Navarro è prezioso per molte ragioni, la prima delle quali è la crudezza e la profondità con cui racconta la pervasività del lavoro nella mente umana, adesso, al netto delle nevrosi e delle debolezze generazionali (e di Bret Easton Ellis che ai millennial dà dei “pappemolli”), al netto delle stanchezze e arrendevolezze occidentali, del reflusso della bambagia e della fine della storia. Il punto di Navarro non è tanto la disamina della malattia mentale, quanto la nostra incapacità di vederla. In questo senso e per questa ragione, è un libro che dovremmo leggere per smetterla di scrollare le spalle come anziani incazzati coi parchimetri. Abitano in questo romanzo due protagoniste, la lavoratrice è una redattrice precaria che convive con una sua quasi coetanea, che conduce una vita più misteriosa ma di fatto simile alla sua, a Madrid (in periferia, quindi non immaginatevi appartamenti spagnoli e tapas e festini: le periferie sono quasi tutte infelici, anche se ciascuna a modo suo). E non succede nient’altro che questo: le ragazze si osservano, certe volte si spiano, notano le rispettive debolezze, trovano la confidenza per raccontarsi le proprie vite, e raccontandosele si rendono conto di cosa è successo, di dove si sono attorcigliate, del sesso che hanno fatto per ossessione, delle cure che hanno assunto per inerzia, dei lavori che hanno preso per rassegnazione, il coraggio che non hanno avuto per amarezza. 

 

Non c’è niente, in questo libro, sul lavoro e sul precariato di quello che leggiamo sui giornali. C’è, invece, l’espianto di una radice. A far ammalare la lavoratrice (le ha tutte: l’esaurimento nervoso, il burn out, l’inappetenza, la bulimia sessuale) non è il precariato, o il troppo lavoro. E’ la ricerca continua di sé, il “chi” sempre seguito da un punto interrogativo, il tempo che è sempre troppo pieno o troppo vuoto e quando è vuoto illude che la libertà sia tutto, e vada ricercata a tutti i costi, e richieda di non fermarsi mai. La schiavitù che spiega molto bene Navarro è il modo in cui il lavoro ci fa vivere il tempo, come qualcosa che ci aspetta, e che dobbiamo conquistare, anziché come qualcosa che ci si consuma tra le mani. E la lucidità su questa consunzione è rara, arriva a tratti, e in quei tratti impazziamo, e non riusciamo a capire se sia ancora possibile scegliere, o se non resta che farsi scegliere. E non sappiamo se siamo liberi, liberati, liberti, libertini. Abbiamo aneliti indefiniti e vuoti infiniti, che riempiamo con l’ossessività. La lavoratrice, per esempio, il vuoto lo riempie con la bulimia sessuale. E ci mette tutto un romanzo, una storia, per capire che ha scelto una vita che non le lascia che una scelta: accettare che la libertà esiste, certamente, ma che non le dà il lavoro, precario o meno che sia. E’ libero chi ha la consapevolezza profonda di quello che ha scritto Agnes Heller: “La modernità si basa sulla libertà, che però è un fondamento che non fonda”. Così è diventato il lavoro, nelle nostre vite, pappemolli per anagrafe o meno che siamo: un fondamento che non fonda. E così fondati su fondamenti che non fondano, come possiamo non dare di matto, come?

Di più su questi argomenti: