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Per l'Arma, ignorare l'onore del prigioniero significa avere la benda sugli occhi

Alfredo Mantovano

L'eco della foto di Natale Hjort supera il delitto per cui è in corso l’indagine. Quando il rancore non risparmia le istituzioni

Se c’è un Paese occidentale che dovrebbe usare prudenza per protestare contro presunti abusi delle forze di polizia di altre Nazioni, quel Paese sono gli USA: nel cui territorio solo nel 2018 le varie polizie hanno ucciso 1810 persone, secondo il blog Fatal Encounters, specializzato in questo terribile censimento (distinto per età, sesso, provenienza etnica, luogo dell’evento). 200 sono state le vittime solo in California, lo Stato dal quale provengono i due fermati per l’omicidio del brig. Cerciello Rega. In Italia una benda messa su un indagato anima – come è giusto che sia – il dibattito mediatico; meno giusto è che l’enfasi superi ampiamente – dentro e fuori gli USA – l’eco di una persona morta durante un controllo in uno qualsiasi degli States.

 

Ripristinate le proporzioni, qualche domanda però bisogna porsela, visto che la foto di Natale Hjort ha avuto eco pari al delitto per cui è in corso l’indagine. I Carabinieri sono un corpo militare: a parte le regole del codice, che ne è in questa vicenda di quell’onore che impone di rispettare il prigioniero? Non si fa il bene dell’Arma se si moltiplica la retorica su di essa, ma non ci si chiede come mai è accaduto. C’è un secondo quesito che si affianca: chi ha scattato la foto dell’indagato bendato, e poi l’ha postata in rete, è presumibilmente un Carabiniere. In una struttura gerarchica un milite sotto il cui sguardo si consuma un abuso lo segnala al superiore, il quale sa come provvedere; e lo sa ancora di più ora, dopo i rafforzati richiami alla cautela e al rigore imposti dal caso Cucchi. Non seguire questa strada – non di collusione né di copertura bensì di responsabile segnalazione – ha gettato discredito sull’Arma e sull’Italia intera: prima ancora della identificazione dell’autore, interessa domandarsi perché lo ha fatto.

 

Lasciamo da parte ipotesi complottistiche, da taluno avanzate con sprezzo del ridicolo, su manine dei servizi americani, o di soggetti a essi collegati. Spesso la spiegazione più semplice è quella che non si considera: in una stazione dei Carabinieri le ragioni di insoddisfazione sono tante, anche umane troppo umane, come in ogni comunità di lavoro difficile, dalla licenza mancata al turno imposto. Nulla di più facile che la foto mandata Urbi ed Orbi sia la banale vendetta a un torto subito da un collega, una risposta all’insegna dell’adesso ti faccio vedere io, la versione da caserma di un revenge porn. Chi l’ha fatto non si è reso conto dell’effetto che avrebbe causato? E quando mai l’uso dei social viene preceduto da una riflessione superiore a un paio di secondi sulle conseguenze della diffusione di una immagine o di una frase? Sorprende che avvenga non da parte di adolescenti che litigano, ma di appartenenti all’Arma?

 

Ma perché, una meccanica simile non si riscontra pure nella scuola, fra studenti, da alunni o genitori verso insegnanti, e fra gli stessi docenti, quando via social si punta a recare all’altro il maggior danno possibile, all’insegna dell’odio di tutti contro tutti? Per non dire della magistratura. Quando, in tempo quasi reale e grazie al trojan, è venuto fuori il contenuto dei colloqui fra Palamara e Fuzio, da varie sedi giudiziarie singoli magistrati, per lo più p.m., hanno inoltrato alla Procura di Perugia proprie denunce contro l’allora Procuratore generale della Cassazione: del tutto inutili, visto che Perugia, indagando sul primo, stava già valutando gli elementi eventuali a carico del secondo. Mostrando che Maramaldo oggi ha epigoni perfino fra le toghe, e che il rancore del “finalmente paghi pure tu” non risparmia istituzioni che dovrebbero mostrare il massimo di equilibrio e compattezza.

 

E’ un problema dell’Arma, ma non solo di essa. Lo si affronta se si è consapevoli che esiste. Ignorarlo significa mettere la benda sugli occhi: ma di sé stessi.