Il problema delle fake news non è Trump, Facebook o i robot. Sei tu

Alberto Brambilla

Gli studi più recenti dicono che la facile diffusione delle bufale non è colpa di presunti "agenti esterni" ma del processo mentale che spinge gli utenti a fare clic sui social network

Roma. Il fenomeno delle “fake news” non fa più una notizia da tempo. Quando un neologismo diventa gradualmente un’espressione logora perde di interesse. L’idea che le informazioni in circolazione sui social network possano condizionare milioni di persone fino a modificare il “normale” processo elettorale, tipo l’elezione di Donald Trump manipolata da Mosca, è invece dura a morire. E’ però attuale parlare di “fake news” sia perché le informazioni in rete hanno effetti sociali ed economici – ricordate il falso tweet che dava Barack Obama ferito in un’esplosione? Sono evaporati 130 miliardi in Borsa – sia perché, nell’ultimo biennio almeno, gli operatori dei social più popolari, come Facebook e Twitter, hanno cercato di arginare il fenomeno senza però riuscirci.

  

La settimana scorsa la rivista scientifica Science ha pubblicato quello che probabilmente è lo studio più corposo sul tema finora. Una squadra guidata da un data scientist del Massachusetts Institute of Technology, Soroush Vosoughi, ha analizzato 126 mila storie twittate da circa tre milioni di utenti, rimbalzate per 4,5 milioni di volte, nell’arco di dieci anni dal 2006 al 2017, non solo quelli da fonti ufficiali o accreditate ma anche da fonti ritenute tali. La ricerca è servita a capire come le false notizie si propagano online. La conclusione per quanto deprimente dice – o conferma per chi già l’avesse intuito – che le false informazioni si diffondo più rapidamente e con maggiore profondità delle notizie vere e riportate con cura. Sono più persistenti in rete e nell’immaginario collettivo. I ricercatori offrono due spiegazioni coerenti sul perché le false notizie abbiano un appeal maggiore: le “fake news” suonano come più “fresche” e inedite delle solite notizie verificate e suscitano nell’utente un’ondata emozionale maggiore delle normali notizie. La spiegazione del successo delle “fake news” può essere articolata in diversi modi. Ma comunque la si voglia vedere è in massima parte da cercare nella psicologia dell’utente più che nell’influenza di un agente esterno, molto difficile da sondare, oltre che fuorviante rispetto allo scopo.

 

Nel suo ultimo saggio “Enlightenment Now” il professore di Psicologia Steven Pinker riprende l’idea che viviamo nell’epoca più ricca nella storia dell’uomo ma paradossalmente è descritta come quella di maggiore crisi perché la razionalità dell’illuminismo ottocentesco è stata abbandonata da una porzione della società in una lotta ancestrale con il tribalismo, la difesa dell’autoritarismo, il pensiero magico, e l’autocommiserazione. Questi sentimenti sono probabilmente minoritari nella società, come pensa Pinker, ma sui social network prevalgono e si diffondono allo stesso modo in cui le cattive notizie, o false, vanno più in profondità di altre. Serge Moscovici è uno psicologo sociale, scomparso nel 2014, famoso per i suoi lavori su come le minoranze possono influenzare la maggioranza. In un suo esperimento è riuscito con un comando assertivo a convincere i volontari ad affermare che una tavoletta era dipinta di verde quando verde non era. In generale l’essere umano è facilmente influenzabile. Sostituite il “colore” di Moscovici con una informazione, una convinzione o un’emozione è il risultato non cambia.

 

Nel fardello evolutivo dell’uomo rimane l’attenzione al rischio, al pericolo dietro l’angolo. La paura dell’ignoto risiede nell’emisfero destro del cervello che essenzialmente ci fa vedere il mondo con le lenti foderate di paura, ansia e stress. Ma è anche quello che ci salva la pelle. Il mondo, tuttavia, è più quieto di quello dei nostri antenati: le tigri nella foresta non esistono più. La minaccia di una guerra nucleare, di un conflitto, di una imminente catastrofe climatica più che una certezza – quale era la tigre nascosta in un cespuglio – semmai è una notizia, probabilmente esagerata se non falsa. Il perché abbia un appeal irresistibile l’ha spiegato Michael Shermer nel saggio “The believing brain” a proposito della diffusione dell’immaginario complottista. Il meccanismo di rinforzo-ricompensa nel cervello è collegato a un ammasso di neuroni grande come un’arachide, il nucleus accombens, che quando raggiungiamo un risultato positivo produce dopamina, la quale provoca una sensazione di piacere invitandoci a ripetere nuovamente lo stesso comportamento oppure, per esempio, a leggere qualcosa in linea con un pensiero che ci appaga o emoziona. E’ un cicolo vizioso tossico per l’individuo e per la società? Forse. Ma si può evitare. E’ comune ricevere in mail messaggi di “spam” con inviti a ritirare enormi vincite o a iscriversi a corsi vari a prezzi stracciati. La colpa non è dell’algoritmo che li propone ma nostra se accettiamo e cadiamo nella truffa. Quindi il problema è di chi non resiste a fare “clic”. Forse trattando le “fake news” come “spam” il fenomeno può essere sconfitto o ridotto.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.