(foto LaPresse)

I costi della demagogia

Carmelo Caruso

Il pasticcio delle mascherine e le responsabilità del modello Arcuri. Parla Del Barba, deputato di Iv

Roma. A prezzo calmierato per chi le acquista, ma a costo di non rimetterci per chi le confeziona. Scoppiata l’epidemia, è stato chiesto agli imprenditori di riconvertirsi e cucire mascherine. Oggi, dopo l’annuncio di Domenico Arcuri, commissario straordinario all’emergenza, viene permesso di venderle, ma al prezzo imposto di 50 centesimi, senza tenere conto dei loro investimenti e senza neppure dirgli “grazie”. Il risultato è lo scontento e il paradosso: chi non ha speculato sta smettendo di produrle e gli italiani, che sono costretti a indossarle, non riescono ancora ad averle. “E a questo punto mi sembra opportuno sollevare delle domande che esigono delle risposte”, dice Mauro Del Barba, deputato di Italia viva, che ha seguito l’iter del decreto Cura Italia e, da lombardo, ha assistito alla corsa virtuosa, generosa, di tante aziende mobilitate. “Nel momento più difficile ci siamo rivolti a loro. Penso a tanti piccoli e grandi laboratori tessili che non hanno fatto mancare il loro contributo. ‘Abbiamo bisogno di voi’ era l’appello. E loro hanno risposto. Adesso, però, a rispondere deve essere il commissario”, esige Del Barba. 

 

 

Componente della Commissione Finanze della Camera, Del Barba ha avuto modo di ascoltare Arcuri in un’audizione che si credeva potesse chiarire ma che ha finito per aggiungere perplessità. Quante mascherine servono? Basteranno quelle che abbiamo? Quante ne abbiamo? È realmente possibile venderle a meno di un euro e cinquanta centesimi? “E infatti – rivela sempre Del Barba – dopo quella audizione, ho deciso di spedirgli una lettera e confido possa al più presto fornire risposte”. Ed è interessante perché la lettera illumina ed elenca le criticità e le incongruenze. Onorevole Del Barba, non è stato giusto mettere un freno alla speculazione delle mascherine? “Nessuno mette in discussione che ci debba essere un controllo rigoroso dei prezzi, ma mi sembra altrettanto evidente che le imprese che hanno partecipato, programmato, modificato linee produttive – e tutto questo per rispondere all’emergenza – meritino di essere ringraziate e risarcite”, replica il rappresentante di Italia viva. 

 

 

Per sopperire al fabbisogno di mascherine, il decreto Cura Italia ha lanciato un bando da cinquanta milioni di euro a cui hanno partecipato centinaia di aziende. E per Del Barba, il decreto mostrava all’origine una certa nebulosità che non ha sicuramente aiutato. Si prometteva, è vero, una procedura agevolata per chi aveva intenzione di produrre e certificare questi dispositivi; e però, quando si è successivamente arrivati al bando, non sono stati illustrati i criteri utilizzati per scremare le aziende. “Come può un imprenditore partecipare a un bando senza conoscere i criteri?”, si domanda il deputato renziano. Escluse dal bando, sono altre centinaia le imprese che hanno continuato a produrre mascherine e che – ricorda Del Barba – sono state regalate a personale sanitario o destinate a quelle case di riposo dove il virus è stato più letale. “Oggi c’è un problema di chiarezza nei loro confronti. Se abbiamo trovato il modo, attraverso quel bando, di soddisfare il nostro bisogno, ebbene, lo si dica. Si dica in maniera netta che non occorre più produrne. Le aziende potrebbero immetterle sul mercato estero e molte purtroppo già lo fanno: possiamo rinunciare a questa produzione? E si ragioni naturalmente su come rimborsarle, si ragioni sul ristoro. Purtroppo mi sembra che nulla di tutto questo stia accadendo. Si preferisce proseguire nell’incertezza e deresponsabilizzando”. Ma siamo davvero sicuri che non ci servono quelle mascherine? “E’ quanto mi chiedo. Mi sembra che gli italiani siano ancora alla ricerca”, risponde Del Barba che aggiunge il nodo certificazione. Finora, a parte la promessa che sarebbero state vendute a 50 centesimi, non si è fatta la distinzione fra mascherine usa e getta e mascherine chirurgiche certificate di materiale tessile riutilizzabile. “Vengono inserite tutte nella stessa categoria. E riguardo alla certificazione, si è lasciata la possibilità, alle aziende, di scegliere. C’è chi ha chiesto di averla per poter vendere mascherine chirurgiche e chi ha invece preferito non chiederla e vendere semplici mascherine protettive o addirittura ha interrotto il processo di certificazione per non incappare nel prezzo calmierato. Chi ha prodotto queste ultime ha un mercato a disposizione, penso alla Germania e Svizzera. Come si vede, c’è molto da chiarire”, dice Del Barba. E c’è da sapere quante ne rimangono ferme, nei magazzini. Arcuri ha risposto che entro luglio si arriverà a coprire la richiesta e che il cento per cento dei dispositivi sarà prodotto in Italia. Sono molti gli interrogativi dato che, sempre Arcuri, ha riconosciuto che oggi “solo il venticinque per cento del fabbisogno è coperto dalla produzione italiana”. Tra le ambiguità resta il prezzo. E qui si torna al tipo di mascherine. “E’ chiaro che alcune mascherine hanno costi superiori ai famigerati cinquanta centesimi fissati. Che si fa con chi ha investito e le produce a costi superiori a quello fissato e che adesso non può ovviamente metterle sul mercato perdendoci?”, prosegue Del Barba, che non può che parlare di “risposte contradditorie, a tratti demagogiche. Non è così che si può governare un fenomeno. Io attendo risposte”.