(foto LaPresse)

Se la fase 2 zoppica, la fase 3 è inesistente

Alfredo Macchiati*

Più che di un'inflazione legislativa, le imprese hanno bisogno di misure chiare e di un piano per la ripresa

Le politiche di sostegno alle imprese più colpite dalla crisi, misure decise e decretate, non sono chiare. E’ evidente la difficoltà di implementazione, su cui la stampa ha offerto puntuali resoconti. La totale dominanza della cultura giuridica, con innesti frequenti ma non per questo più efficaci, di cultura accademica, ha prodotto decreti complessi, di difficile comprensione in larghi strati della piccola e media imprenditoria. L’effetto di decreti scritti da chi, per lo più, è abituato a disegnare processi ma mai si è occupato di verificarne costantemente l’attuazione e a misurarne gli effetti produce inflazione legislativa, e quindi incertezza nel diritto, e deresponsabilizza la burocrazia. Non è una novità. La nostra macchina pubblica funziona così da decenni. E’ una della cause della mancata crescita economica del paese. E quando arriva uno shock potente la macchina non reagisce, non è in grado di reagire.

 

Nel settore sanitario la macchina pubblica ha tuttavia reagito grazie alla dedizione e al sacrificio di molti. Ma questo non esclude una valutazione documentata delle politiche attuate e delle prospettive. Al riguardo, è noto che la ristrutturazione portata avanti nello scorso decennio ha puntato alla riduzione dei posti letto dal momento che per la cura di molte patologie, prima del COVID-19, si considerava inappropriato un ricovero ospedaliero al di fuori della fase acuta della malattia. La cura, per questi pazienti, richiede quindi meno ospedali e più strutture territoriali. La legge 189/12 - ex Decreto Balduzzi - che ridefinisce la funzione ospedaliera, invitava a potenziare e consolidare un modello territoriale di risposta alla domanda di sanità ma quella riforma sembra non aver funzionato: i cittadini hanno visto gli ospedali ridursi senza che i servizi sul territorio siano migliorati. E i servizi sul territorio possono essere una difesa decisiva se l’epidemia si dovesse ripresentare. Secondo gli esiti (resi noti nel 2019) di una verifica sperimentale condotta dal Ministero della Sanità, che ha utilizzato nuovi indicatori sulla qualità dell’assistenza, risulta che proprio nell’assistenza distrettuale si registra il maggior numero di Regioni inadempienti. Si noti che l’assistenza territoriale assorbe il 51 % degli stanziamenti della spesa sanitaria (contro il 44% dell’assistenza ospedaliera). Il decentramento alle Regioni offre, in teoria, la possibilità di dare risposte diverse a problemi simili tenendo conto delle caratteristiche e delle preferenze differenziate dei territori; il processo democratico dovrebbe garantire che i cittadini scelgano bene gli amministratori e forse qui qualche problemino si presenta (e non da oggi). Ma la possibilità che non ci siano cittadini capaci di scegliere tra i diversi indirizzi di gestione e abili nello scegliere le persone giuste è un problema della democrazia da quando c’è il suffragio universale. Non è un problema di ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. Per tornare alla polemica, quello che il governo dovrebbe fare è non enfatizzare gli eventuali risultati deludenti dell’assistenza territoriale (che i cittadini già percepiscono sulla loro pelle) ma dare pubblicità alle somme che le singole Regioni percepiscono per tale forma di assistenza.

 

Ma la sanità non è solo cura: può essere anche un driver della crescita. Abbiamo una industria farmaceutica ancora eccellente: insieme a quella tedesca la più importante in Europa, fortemente esportatrice, con presenza significativa di capitali esteri. Non è chiaro come si intenda sostenere la ricerca in questa filiera. Né è chiaro come si potrebbero utilizzare i miliardi del famigerato MES da destinare alla sanità. Dalla discussione, tutta ideologica, non è finora uscita un’ipotesi su quali siano le esigenze e come si potrebbero fronteggiare. Come se spendere bene 40 miliardi fosse un esercizio semplice. I virologi, oramai abituali ospiti del talk show televisivi, hanno qualche suggerimento da dare, considerato che nel futuro dovremo convivere con il rischio di epidemie?

 

Ma la strategia di uscita dalla crisi per ora non c’è, e non solo nel settore sanitario. Se la Fase 2 zoppica, la Fase 3 manca del tutto. Le stime disponibili indicano che l’effetto dell’epidemia sul PIL sarà più grave in Italia che in altri paesi, con la conseguenza che il divario dall’Europa si allargherà. Inoltre, l’effetto si distribuisce in modo asimmetrico: il turismo sarà tra i più colpiti e non è chiaro come il governo intenda sostenere questo settore e incentivare gli italiani che potranno permettersi una vacanza a trascorrerla in Italia. Gli operatori del turismo, alla vigilia dell’inizio della stagione, avrebbero bisogno di un quadro di riferimento. Più in generale, per delineare una strategia, la ricostruzione, il governo dovrebbe utilizzare anche cultura imprenditoriale. La seconda industria manifatturiera d’Europa viene (ovviamente) chiamata a firmare Protocolli sulla sicurezza nelle fabbriche ma non viene invitata a delineare una strategia della ripresa. Le rappresentanze imprenditoriali, dal canto loro, potrebbero non aspettare l’invito, e nel frattempo lamentarsi sull’inadeguatezza del governo, ma mettere sul tavolo della discussione un piano per la ripresa, con risorse, priorità, benefici attesi. Se si vuole una Fase 3 migliora della 2 c’è bisogno di mettersi al lavoro. 

 

*Alfredo Macchiati è Direttore di Oxera

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